Al termine, un regalo da parte della presidenza Unitre: un romanzo sulla Resilienza, scritto da Concita De Gregorio, inviata di politica, cultura ed editorialista per vent'anni in La REPUBBLICA, direttora per pochi anni de L'UNITA'.
Mai regalo fu più appropriato. Non è una storia. E' una storia saggio. O storia saggia. Scusate il bisticcio di parole. E' della filosofia della perdita. La De Gregorio sembra raccogliere la testimonianza di una donna italiana sposata ad uno incegnere sfizzero (da leggere proprio così, come l'ho scritto), da cui nacquero due gemelle. Sembra, perché in realtà non è una storia. All'età di 6 anni, mamma e papà decidono di lasciarsi. Serenamente, senza intoppi. In apparenza. Ma in sostanza, un giorno il papà sparisce assieme alle figlie. Dopo qualche giorno, il papà si suicida. Nulla più si sa delle piccole. La mamma, donna in carriera, sconnessa dal tessuto sociale sfizzero, è criticata.
Vi è un intero capitolo in cui si coglie la sostanza poetica della prosa. E' la lettera della madre ad un fratello, certo Vittorio, lontano nel tempo e nello spazio, in cui gli racconta il ricordo di un anello sempre desiderato ma mai pervenutole in dono dagli amati uomini. Finalmente, un uomo glielo dona. Ed è il suo nuovo amore che la condurrà fuori dalla sua malattia di perdita.
La donna non solo vorrebbe i corpicini delle figlie perdute, da abbracciare seppur nella morte, ma dalla scrittrice cui confida il proprio dolore secco, si aspetta una parola che la identifichi come madre che ha perso figli.
Vi è un altro capitolo intero in cui si coglie la perfezione millimetrica della De Gregorio nella ricerca di questa parola. Che non esiste.
Per essere felici non ci vuole tanto. Per essere felici non ci vuole quasi niente. Niente, comunque, che non sia già dentro di noi.
Questo si legge ad un certo punto. Quando cioè la madre raggiunge la rassegnazione della perdita. Si direbbe una massima buddista.
Consigliato a chi ha perso un figlio per morte. A chi l'ha perso non solo nella morte, ma anche nella vita. A chi teme che la poesia sparisca nella prosa. Consigliato ai filologi della parola. A chi sa stupirsi ancora. E non è cosa comune.
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