Il libello di Paola Mastrocola ci racconta con malcelata condiscendenza la dipendenza da Social di una neo vedova, Evandra, in vena di solitudini. Tanto leggiadra la maniera del raccontare che si è portati a credere ci sia una nota di autoagiografia, che però sconfina nella leggerezza.
Vi è infatti la tragedia telefonata sin dalle prime pagine, che si compie grazie (grazie? Per colpa!) di uno curioso stratagemma messo in atto dal suo innamorato, mai dichiarato, che avrebbe invece voluto farla felice.
L'autrice si sofferma a lungo sulla invenzione, quasi trovando una vena ironica, senza condanna, pur sapendo che sarà strumento di morte psicologica dell'Evandra. Dell'innamorato un po' orso, incapace di smuoversi dalla sua timidezza al punto da decretare la condanna proprio della protagonista, la Mastrocola dice: “Anche se un suo sogno segreto ce l'aveva, ed era di portarla un giorno a vedere La Bohème. (…) Evandra era così sola, aveva una vita così povera. (…) Ma non bisognava correre. Tempo al tempo, si diceva. E stava zitto.”
Zitto fino all'alienazione di Evandra. Lo fa tacere fino alla inconsapevole distruzione della vedova. Un vero peccato. Altro da dire non c'è, in questa libellula di carta, perché il plot è presto esaurito, pur ravvivandosi talvolta con invenzioni narrative abbastanza gradevoli ma in fondo vuote, come è vuota la vita di chi sviluppa una dipendenza.
Un po' moralisticheggiante, non sufficientemente didattico, non abbastanza ironico.
Consigliato a chi vorrebbe sostituire il mondo reale con quello virtuale.
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