giovedì 18 maggio 2017

LE CORTE DEL CAPOFREDDO

Il 7 maggio 2017 vengo insignita del primo premio ex aequo per uno dei miei racconti brevi contro gli stereotipi al concorso VOCEDONNA di Castrocaro Terme/Terra del Sole. Tra i riconoscimenti in forma di libri, mi viene conferito quello di Alberta Tedioli che leggo d'un fiato perché scopro fin dalla prima delle sue microstorie quanto sia vicino per forma e per tematiche alle mie, che finiranno in una raccolta dal titolo STEREOTIPI A BAGNOMARIA.

Voci di Marketing Editoriale dicono che in Italia i racconti non si vendano. Dicono anche che i romanzi non si vendano. E dicono che pure la poesia non venda. Le affermazioni mi lasciano perplessa perché quando vado ad iniziative del genere, sparpagliate per tutto il Paese, vedo invece grande partecipazione di pubblico. E a chi dice che trattasi di pubblico prezzolato dagli autori, rispondo che gli autori derivano dalle loro opere manco il denaro necessario alla propria sopravvivenza - tranne i fortunati televisivi - figuriamoci per pagare il proprio pubblico.

Non conosco il tenore di vita dell'autrice Alberta Tedioli, ma temo di non sbagliarmi troppo affermando che sue eventuali ricchezze non provengano dalla carta stampata. Eppure questa sua raccolta è godibilissima, perché non stanca la mente, allieta con l'ironia, spazia in modo trasversale tra tematiche contemporanee, tocca tutti gli strati sociali e culturali italioti. Riporto un racconto su tutti, che mi ha fatto tanto sorridere (amaramente):
MODERNISMI
Con l'arrivo dei supermercati nell'Africa Nera, gli abitanti guardavano curiosi i carrelli da spingere. Sulla testa non ci stavano.”

Folgorante, come anche tanti di quelli lunghi. Mai più di una paginetta e mezza, impossibile stancarsi, impossibile non trovarvi sollievo dalle brutture della vita.

Consigliato a chi ha poco tempo per leggere, a chi si annoia coi romanzi, a chi cerca ironia nelle cose del quotidiano.

giovedì 11 maggio 2017

MEXICAN TAXI

Razzista, fatto di droghe e di sesso: un modo per definire il protagonista di MEXICAN TAXI che Francesco Spano ci dipinge con immagini secche, senza perdersi in aggettivi inutili e nemmeno in descrizioni superflue. Il protagonista ci parla in un soliloquio senza sconti, quindi non necessita di dirci la professione, né le sue origini, né tanto meno il suo nome. Come lettrice di questo libro ipnotico, di conoscerle non avverto la necessità.

In un'imprecisata banlieu francese, ospite di una famiglia congolese con cui la sorella si è imparentata, la sua mente divaga tra onirici desideri sessuali e la paura dello sconosciuto negro.
“Inizio a stare meglio: sono amato, coccolato, nessuno mi vuole mangiare, i cannibali resistono solo in una piccola comunità in Indonesia.”

Qua e là, nel solingo racconto, immagini di sociologia dipinte con sarcasmo.
“Cuba e il comunismo hanno partorito un figlio che si occupa di riordinare il simbolo di tutto quello contro cui si sono sempre battuti: il carrello.”
“Ci sono bambini scalzi e ragazzine panzone con i pantaloncini cortissimi e le ciabatte e i piedi neri, e alcune di loro affogano con biberon zeppi di Coca-Cola neonati con gli occhi da adulti e le faccette da angeli.”

Il parallelo con Bukowski arriva solo dopo una sessantina di pagine, fatte di “tette, culi, troie, crack e coca” (uso le virgolette perché non è il mio linguaggio, io avrei preferito scrivere “seni, deretani, droghe varie” ma non avrebbero avuto la stessa efficacia). Non è arrivato subito, perché trascinata impetuosamente dalla narrazione.

“Sono fattissimo, il cuore mi rimbalza da tutte le parti, lo sento anche sulla punta dei piedi, è una mano che stira il cervello verso l'alto e cerca di tirarmi fuori tutte le cose che ho dentro.”

“Sono pazzi in Zimbawe. Il giorno dello stipendio spariscono. E non li rivedi più per tre giorni. (…) Gli uomini ricompaiono il terzo giorno del mese successivo, e sono tutti più magri, più neri, più stanchi. Inutile dire che i soldi del mese evaporano tutti in alcol, droghe e puttane. In tre giorni. È un metodo che vorrei esportare anche nel grande e operoso Occidente, ma ancora non ho ben chiari i dettagli della riforma.”

D'un tratto nel delirio stupefatto, mi ritrovo a leggere le avventure del protagonista in Messico non so bene come tra un taxi e l'altro.
“Ha perso il lavoro dopo quattro lezioni perché l'anno scoperto con una ragazzina ninfomane e bipolare mentre le infilava un vibratore nel culo e lei disegnava alberelli sulla parete del bagno. S'è salvato perché Tessa aveva appena compiuto diciotto anni, esattamente un anno dopo aver tagliato la gola al gatto siamese, al cane e al fratellino di dieci mesi” , dice di un collega insegnante.

“Sento che qualcosa mi sta sfuggendo di mano. Credo stia andando tutto a rotoli. Immagino sia normale, che sia così per tutti. Meglio star lontano, disfarmi e scomparire alla larga dalle mie radici. Dove nessuno può vedere. Meglio mischiarmi a questa cianfrusaglia di vite perse, di bocche sdentate, di alcolizzati e di spari” medita il protagonista davanti all'ex compagno di sbronze in coma etilico, a tia Marta, Camilla e a Enid, una bambina cui era stato strappato un figlio dal ventre: il cancro.

L'ennesimo taxista lo porta chissà dove e straparla:
“Ok ok italiano. Voi avevate Pasolini, pederasta geniale, che aveva capito tutto, prima ancor prima che succedesse e da noi il terrorismo non è mai stato né rosso né nero, da noi il terrorismo è sempre stato per la droga.” Il taxista prosegue col suo sproloquio delirante tra Stati Uniti e narcos, sbalestrando le già difficoltose capacità di comprensione del protagonista. “Non ci sto capendo più un cazzo, io devo andare a dare lezione d'italiano e 'sto coniglio bavoso mi sta martellando con tutti i problemi del suo paese e mi tira fuori pure Pasolini (…) quindi senza farmi vedere tiro giù una pastiglia di Clonazepalm (…) Ne prendo un'altra e non ascolto più. Parla e straparla ma non ascolto più. Sono stanco dei loro discorsi, sono stanco di tutto questo schifo. Non vorrei stare qua, non vorrei stare da nessuna parte. Solo su quella nuvola enorme. O sulla lancetta di un orologio, tic tac, tic tac, tic tac. Appeso. Fino a quando non ci sarà più appiglio.”

Cliccando più volte sul tasto per voltare pagina, avrei voluto continuasse. E invece era già finito. Finito. Finito. Mi sono dovuta rassegnare alla bellezza di quel finale senza speranza.

Consigliato a chi vive nel perenne stato di stupefazione del caldo, della droga, del taxi, del Mexico, che è la vita all'italiana.

sabato 6 maggio 2017

LA SIGNORA DEL CAVIALE

Di Michele Marziani, il primo romanzi letto, pur riconoscendone l'abilità narrativa, mi aveva lasciata indifferente, lo trovai involuto e insufficiente (FOTOGRAMMIIN 6 X 6) a cui sono seguiti altri due (IL CAVIALE DEL PO  e UMBERTO DEI) che invece valutai in superficie come potenti. 

Quest'ultimo invece mi ha mosso qualcosa nel profondo. Comincia in sordina, nel tipico stile understatement del Marziani, un po' dimesso, mai rutilante. Eppure avverto una corrente elettrica sotterranea cui le vite dei protagonisti fanno da accumulatore, in un crescendo che ha del musicale. Avvolge il lettore impedendogli di staccarsi, almeno a me, forse perché da sempre affascinata di quell'elemento “esotico” che fu la II Guerra Mondiale e che a questo romanzo fa da sfondo, ma trasformata in poesia, grazie alla perizia espositiva dell'autore. 

La trama accompagna l'evoluzione del protagonista della durata di una sessantina d'anni negli ambienti del Delta del Po così cari al Marziani, dalla fine delle elementari fino alla sua morte. Non racconto nulla del plot perché sarebbe tutto uno spoilerare. Però una cosa la posso dire: mi è balenata l'idea che questo protagonista sia proprio suo padre. Mi ha appassionata e toccata così tanto nel cuore, che mi ha fatto scattare la voglia di scrivere il mio primo romanzo, tutto su mia madre, ambientato in Verbania ai tempi della guerra. Concludo riportando l'unica frase del romanzo, fortemente costruita allo scopo di essere evocativa:
“Allora vedo il cavallo bianco. Lo guardo correre verso di me e lo vedo trasformarsi in storione. Un un immenso storione. Poi è passato il treno.”

Consigliato ai nostalgici come me, a chi cerca di vedere sempre un risvolto positivo anche nelle brutture umane, a chi cerca l'ispirazione nel passato per vivere meglio il presente.

ARTIGIANATO SENTIMENTALE

Conosco online questo bell'uomo tramite un altro amico poeta. Se la bellezza sta negli occhi di chi guarda, sta anche però nella proporzione diretta tra aspetto fisico e contenuti interiori. Al crescere dell'uno, crescono gli altri. Gabriele Borgna ne è la conferma, fin dalla dedica: “A Stefania, con l'auspicio che il mio scrivere possa trovare spazio dentro di te …” Auspicio, che bella parola aulica, rarefatta.

Savonese, ha ottenuto (lui, non la parola, anche se a dire il vero c'è perfetta identificazione) premi, menzioni d'onore e segnalazioni a concorsi di tutta Italia, nel continuare la miglior tradizione poetica ligure. Il premio Nazionale di Poesia Inedita “Ossi di Seppia” lo consacra continuatore di Montale. Gabriele mi spedisce questa sua prima raccolta ufficiale: già dalla copertina, che mi dona una dimenticata sensazione tattile, dopo anni di eBook, “sento”, anzi, “tocco” poesia. Pacatamente nella tradizione ottocentesca, garbata la copertina mi invita subito a leggere.

Aiutami a impiccare ogni /singola afflizione alle stese, educate all'inchino / duro della tramontana.” Inconsueti enjambements proiettano nella dimensione del mare e dell'amore nel componimento A CA' DE JOSE (au Portu).

Da TRANSUMANTE “Nel petto brividi lividi percossi / da iridi di ieri, già ricordi.” sento lo trascorrere del tempo che forse lenisce, forse no. 

Il componimento strutturato su più parti LA VITA È UN GIORNO (scegliendo Alba, Mattina, Mezzogiorno, Pomeriggio, Tramonto) altalena tra mestizia - “Tumefatto prima di cadere” “Padre a ore” - e tenerezza - “Tu sarai la regina del mio tempo” “noi che nel sogno già ci vivevamo”, tralasciando Crepuscolo e Notte, rivela quanta parte di vita del Borgna risieda nelle prime ore della giornata.

Il forte sentire cristiano che a volte balugina improvvisamente, è tutto dentro IL DONO dove l'amore per una donna si vivifica nell'eucaristica immagine del pane spezzato, nella confessione di essere “ingordo in Quaresima / e incredulo a Pasqua”, per chiudere con“E tu, sei giunta a Natale / come il più bello dei doni.”


Consigliato ai (presunti) pochi amanti della Poesia, a chi si interroga dialetticamente con Dio, a chi ama le immagini secche dei liguri muri a secco.

venerdì 5 maggio 2017

LA DISFATTA DELLA CIA

Fossi nei panni dell'autore Robert Baer, io lo intitolerei: LA DISFATTA DELL'OCCIDENTE. Avevo appena finito Chomsky, quand'ecco capitarmi tra le mani quello che, sulle prime, considerai un libercolo: in edicola mi chiamava coi suoi 5 € e la sua maneggevolezza da viaggio. Tutt'altro: è uno scritto tostissimo da digerire, perché, attraverso la testimonianza diretta di un individuo che lavorò alle dipendenze degli Stati Uniti, dimostra l'assioma di Chomsky: “Gli Stati uniti: uno dei principali Stati terroristici”.

Se tutto il dichiarato fosse vero, anzi, (ma a questo punto c'è da chiedersi come la CIA possa permettere a Baer di divulgarlo) in fondo Chomsky non ha scalfito che la superficie di un sistema perverso auto-imploso. Baer è stato agente operativo presso la CIA, servendo la sua nazione in Iraq, a Dushanbe, Rabat, Beirut, Khartoum e Nuova Delhi, ricevendo la Career Intelligence Medal “per aver ripetutamente corso rischi personali, scegliendo gli obiettivi più difficili, al servizio del suo Paese.” L'autore si giustifica asseverando che la CIA ha censurato qua e là le sue dichiarazioni. Ma temo che tali striscette nere non siano così decisive ai fini della verità. Ciò che ne traspare, resta infatti avvilente, deprimente, lascia una forte sensazione di fallimento, di impotenza, di resa incondizionata. Fa bene il protagonista di Houellebecq ad arrendersi all'Islam. 

Impossibile riportare tutte le azioni, le indagini, le ricerche, i contatti, le svariate modalità d'azione da tanto sono complesse, composite, variegate, fino a sfiorare il pettegolezzo d'alto rango. Preferisco riportare la riflessione conclusiva del Baer: “Un simile nemico (il terrorismo islamico) si sconfigge solo raccogliendo informazioni, scoprendo in anticipo i suoi piani e tenendosi pronti per quando arriva. E per avere quelle informazioni ci vuole la volontà politica di permettere a chi sa come ottenerle di svolgere il proprio lavoro, per quanto difficile sia il compito. Vorrei solo aver la certezza che abbiamo intenzione di percorrere quella via e non di abbandonarla.”
Si direbbe che in realtà Baer ha già rivelato che quella via è già stata abbandonata, ma sia costretto a conservarne la secretazione. 

Consigliato agli illusi che ancora romanticamente credono di essere protetti dalla CIA o dagli Stati Uniti e agli esperti di intrighi internazionali: entrambi ne rimarranno sconcertati.