Razzista, fatto di droghe e di sesso:
un modo per definire il protagonista di MEXICAN TAXI che Francesco
Spano ci dipinge con immagini secche, senza perdersi in aggettivi
inutili e nemmeno in descrizioni superflue. Il protagonista ci parla
in un soliloquio senza sconti, quindi non necessita di dirci la
professione, né le sue origini, né tanto meno il suo nome. Come
lettrice di questo libro ipnotico, di conoscerle non avverto la
necessità.
In un'imprecisata banlieu francese,
ospite di una famiglia congolese con cui la sorella si è
imparentata, la sua mente divaga tra onirici desideri sessuali e la
paura dello sconosciuto negro.
“Inizio a stare meglio: sono amato,
coccolato, nessuno mi vuole mangiare, i cannibali resistono solo in
una piccola comunità in Indonesia.”
Qua e là, nel solingo racconto,
immagini di sociologia dipinte con sarcasmo.
“Cuba e il comunismo hanno partorito
un figlio che si occupa di riordinare il simbolo di tutto quello
contro cui si sono sempre battuti: il carrello.”
“Ci sono bambini scalzi e ragazzine
panzone con i pantaloncini cortissimi e le ciabatte e i piedi neri,
e alcune di loro affogano con biberon zeppi di Coca-Cola neonati con
gli occhi da adulti e le faccette da angeli.”
Il parallelo con Bukowski arriva solo
dopo una sessantina di pagine, fatte di “tette, culi, troie, crack
e coca” (uso le virgolette perché non è il mio linguaggio, io
avrei preferito scrivere “seni, deretani, droghe varie” ma non
avrebbero avuto la stessa efficacia). Non è arrivato subito, perché
trascinata impetuosamente dalla narrazione.
“Sono fattissimo, il cuore mi
rimbalza da tutte le parti, lo sento anche sulla punta dei piedi, è
una mano che stira il cervello verso l'alto e cerca di tirarmi fuori
tutte le cose che ho dentro.”
“Sono pazzi in Zimbawe. Il giorno
dello stipendio spariscono. E non li rivedi più per tre giorni. (…)
Gli uomini ricompaiono il terzo giorno del mese successivo, e sono
tutti più magri, più neri, più stanchi. Inutile dire che i soldi
del mese evaporano tutti in alcol, droghe e puttane. In tre giorni. È
un metodo che vorrei esportare anche nel grande e operoso Occidente,
ma ancora non ho ben chiari i dettagli della riforma.”
D'un tratto nel delirio stupefatto, mi
ritrovo a leggere le avventure del protagonista in Messico non so
bene come tra un taxi e l'altro.
“Ha perso il lavoro dopo quattro
lezioni perché l'anno scoperto con una ragazzina ninfomane e
bipolare mentre le infilava un vibratore nel culo e lei disegnava
alberelli sulla parete del bagno. S'è salvato perché Tessa aveva
appena compiuto diciotto anni, esattamente un anno dopo aver tagliato
la gola al gatto siamese, al cane e al fratellino di dieci mesi” ,
dice di un collega insegnante.
“Sento che qualcosa mi sta sfuggendo
di mano. Credo stia andando tutto a rotoli. Immagino sia normale, che
sia così per tutti. Meglio star lontano, disfarmi e scomparire alla
larga dalle mie radici. Dove nessuno può vedere. Meglio mischiarmi a
questa cianfrusaglia di vite perse, di bocche sdentate, di
alcolizzati e di spari” medita il protagonista davanti all'ex
compagno di sbronze in coma etilico, a tia Marta, Camilla e a Enid,
una bambina cui era stato strappato un figlio dal ventre: il cancro.
L'ennesimo taxista lo porta chissà dove e
straparla:
“Ok ok italiano. Voi avevate
Pasolini, pederasta geniale, che aveva capito tutto, prima ancor
prima che succedesse e da noi il terrorismo non è mai stato né
rosso né nero, da noi il terrorismo è sempre stato per la droga.”
Il taxista prosegue col suo sproloquio delirante tra Stati
Uniti e narcos, sbalestrando le già difficoltose capacità di
comprensione del protagonista. “Non ci sto capendo più un cazzo,
io devo andare a dare lezione d'italiano e 'sto coniglio bavoso mi
sta martellando con tutti i problemi del suo paese e mi tira fuori
pure Pasolini (…) quindi senza farmi vedere tiro giù una
pastiglia di Clonazepalm (…) Ne prendo un'altra e non ascolto più.
Parla e straparla ma non ascolto più. Sono stanco dei loro discorsi,
sono stanco di tutto questo schifo. Non vorrei stare qua, non vorrei
stare da nessuna parte. Solo su quella nuvola enorme. O sulla
lancetta di un orologio, tic tac, tic tac, tic tac. Appeso. Fino a
quando non ci sarà più appiglio.”
Cliccando più volte sul tasto per
voltare pagina, avrei voluto continuasse. E invece era già finito.
Finito. Finito. Mi sono dovuta rassegnare alla bellezza di quel
finale senza speranza.
Consigliato a chi vive nel perenne
stato di stupefazione del caldo, della droga, del taxi, del Mexico,
che è la vita all'italiana.
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