giovedì 11 maggio 2017

MEXICAN TAXI

Razzista, fatto di droghe e di sesso: un modo per definire il protagonista di MEXICAN TAXI che Francesco Spano ci dipinge con immagini secche, senza perdersi in aggettivi inutili e nemmeno in descrizioni superflue. Il protagonista ci parla in un soliloquio senza sconti, quindi non necessita di dirci la professione, né le sue origini, né tanto meno il suo nome. Come lettrice di questo libro ipnotico, di conoscerle non avverto la necessità.

In un'imprecisata banlieu francese, ospite di una famiglia congolese con cui la sorella si è imparentata, la sua mente divaga tra onirici desideri sessuali e la paura dello sconosciuto negro.
“Inizio a stare meglio: sono amato, coccolato, nessuno mi vuole mangiare, i cannibali resistono solo in una piccola comunità in Indonesia.”

Qua e là, nel solingo racconto, immagini di sociologia dipinte con sarcasmo.
“Cuba e il comunismo hanno partorito un figlio che si occupa di riordinare il simbolo di tutto quello contro cui si sono sempre battuti: il carrello.”
“Ci sono bambini scalzi e ragazzine panzone con i pantaloncini cortissimi e le ciabatte e i piedi neri, e alcune di loro affogano con biberon zeppi di Coca-Cola neonati con gli occhi da adulti e le faccette da angeli.”

Il parallelo con Bukowski arriva solo dopo una sessantina di pagine, fatte di “tette, culi, troie, crack e coca” (uso le virgolette perché non è il mio linguaggio, io avrei preferito scrivere “seni, deretani, droghe varie” ma non avrebbero avuto la stessa efficacia). Non è arrivato subito, perché trascinata impetuosamente dalla narrazione.

“Sono fattissimo, il cuore mi rimbalza da tutte le parti, lo sento anche sulla punta dei piedi, è una mano che stira il cervello verso l'alto e cerca di tirarmi fuori tutte le cose che ho dentro.”

“Sono pazzi in Zimbawe. Il giorno dello stipendio spariscono. E non li rivedi più per tre giorni. (…) Gli uomini ricompaiono il terzo giorno del mese successivo, e sono tutti più magri, più neri, più stanchi. Inutile dire che i soldi del mese evaporano tutti in alcol, droghe e puttane. In tre giorni. È un metodo che vorrei esportare anche nel grande e operoso Occidente, ma ancora non ho ben chiari i dettagli della riforma.”

D'un tratto nel delirio stupefatto, mi ritrovo a leggere le avventure del protagonista in Messico non so bene come tra un taxi e l'altro.
“Ha perso il lavoro dopo quattro lezioni perché l'anno scoperto con una ragazzina ninfomane e bipolare mentre le infilava un vibratore nel culo e lei disegnava alberelli sulla parete del bagno. S'è salvato perché Tessa aveva appena compiuto diciotto anni, esattamente un anno dopo aver tagliato la gola al gatto siamese, al cane e al fratellino di dieci mesi” , dice di un collega insegnante.

“Sento che qualcosa mi sta sfuggendo di mano. Credo stia andando tutto a rotoli. Immagino sia normale, che sia così per tutti. Meglio star lontano, disfarmi e scomparire alla larga dalle mie radici. Dove nessuno può vedere. Meglio mischiarmi a questa cianfrusaglia di vite perse, di bocche sdentate, di alcolizzati e di spari” medita il protagonista davanti all'ex compagno di sbronze in coma etilico, a tia Marta, Camilla e a Enid, una bambina cui era stato strappato un figlio dal ventre: il cancro.

L'ennesimo taxista lo porta chissà dove e straparla:
“Ok ok italiano. Voi avevate Pasolini, pederasta geniale, che aveva capito tutto, prima ancor prima che succedesse e da noi il terrorismo non è mai stato né rosso né nero, da noi il terrorismo è sempre stato per la droga.” Il taxista prosegue col suo sproloquio delirante tra Stati Uniti e narcos, sbalestrando le già difficoltose capacità di comprensione del protagonista. “Non ci sto capendo più un cazzo, io devo andare a dare lezione d'italiano e 'sto coniglio bavoso mi sta martellando con tutti i problemi del suo paese e mi tira fuori pure Pasolini (…) quindi senza farmi vedere tiro giù una pastiglia di Clonazepalm (…) Ne prendo un'altra e non ascolto più. Parla e straparla ma non ascolto più. Sono stanco dei loro discorsi, sono stanco di tutto questo schifo. Non vorrei stare qua, non vorrei stare da nessuna parte. Solo su quella nuvola enorme. O sulla lancetta di un orologio, tic tac, tic tac, tic tac. Appeso. Fino a quando non ci sarà più appiglio.”

Cliccando più volte sul tasto per voltare pagina, avrei voluto continuasse. E invece era già finito. Finito. Finito. Mi sono dovuta rassegnare alla bellezza di quel finale senza speranza.

Consigliato a chi vive nel perenne stato di stupefazione del caldo, della droga, del taxi, del Mexico, che è la vita all'italiana.

Nessun commento:

Posta un commento