giovedì 26 novembre 2020

TAIPI di Herman Melville

Il nome di Melville resterà nell’eternità legato al suo stratosferico capolavoro, Moby Dick, che lo innalzò tra le maggiori personalità della fine dell'Ottocento americano. Lo scrittore statunitense esplorò problematiche basilari dell'esistenza quali il rapporto tra uomo e natura, i limiti della morale comune, l'essenza del male, attraverso lo scriteriato inseguimento da parte del capitano Ahab alla balena bianca, che assume i contorni di un dramma faustiano in cui l'uomo, nel tentativo folle di trascendere i limiti propri della sua condizione, condanna sé stesso e i suoi seguaci al baratro morale, all'annichilimento della ragione, alla morte. Tali temi sono parzialmente espressi non solo in Moby Dick, ma anche in TAIPI, il romanzo che Gloss ha ultimato di leggere. A fatica, stavolta. Per rispetto alla grandiosa capacità letteraria di Melville, Gloss non si è servita degli imprescrittibili diritti del lettore. Ma avrebbe tanto voluto per aver letto la narrazione di vicende in tono pedissequo. Il merito dell’opera risiede nell’aver messo in luce le angherie dell’uomo “civilizzato” contro i cosiddetti “selvaggi”, in realtà viventi nell’unico vero paradiso terrestre in armonia celestiale tra loro, quello, per intenderci, dove avrebbe vissuto Gaugin, cannibalismo a parte. All’epoca, a noi progrediti, quella pratica fu venduta dai colonizzatori come nefandezza rivolta a chicchessia di vivente, per giustificare le loro, di nefandezze. In realtà, oggi sappiamo come fosse occasionalmente praticato nei confronti di quei nemici di cui ammiravano forze e coraggio dimostrati in battaglia e solo dopo morti. Pare che Melville vi avesse soggiornato in seguito al naufragio della vascello su cui si imbarcò in cerca di avventure nel mondo e le avesse trovate proprio nelle isole Marchesi, le odierne Filippine. Inizialmente ottenebrato dalle dicerie opportunamente diffuse da e tra conquistatori, poté accorgersi di persona quanto fossero fasulle e opportunistiche, proponendosi lo scopo di divulgare a tutti e tutte quanto gli stessi conquistatori fossero delatori di sevizie, ingiustizie, cannibalismo morale, vituperi di ogni genere. E proprio in questo suo obiettivo ristà la grandezza dell’opera di Melville.

Consigliato agli assetati di giustizia e riabilitazione dei popoli cosiddetti selvaggi, agli spiriti avventurosi, ai ricercatori della verità.




martedì 17 novembre 2020

LA DONNA DELLA DOMENICA di Fruttero & Lucentini

La E commerciale tra i due cognomi denota non solo la sodale unione societaria, ma persino la fratellanza fra gli scrittori Carlo Fruttero (1926-2012) e Franco Lucentini (1920–2002). Spesso abbreviati in F&L sono noti anche come "La Ditta". Alcune loro opere hanno avuto adattamenti cinematografici e di fiction in generale. Il romanzo LA DONNA DELLA DOMENICA ebbe un grande successo e ne fu tratto nel 1975 un film diretto da Luigi Comencini con Marcello Mastroianni (Santamaria), Jacqueline Bisset (Anna Carla Dosio), Jean-Louis Trintignant (Massimo Campi) e Lina Volonghi (Ines Tabusso).



Nel 2011 la Rai Fiction, con Rizzoli Audiovisivi, ha prodotto una miniserie tratta dal libro, sempre con lo stesso titolo La donna della domenica, interpretata da Andrea Osvárt, Giampaolo Morelli, Ninni Bruschetta e Fabrizio Bucci. Quindi F&L con questo romanzo assurgono di diritto alle recensioni della Gloss che fu sceneggiatrice ghost writer nei Novanta. 


Ambientato nella Torino bon ton dei Settanta, nella DONNA DELLA DOMENICA l’avvicendarsi dei personaggi, variati e avariati, si impernia attorno a un detto tipicamente piemontese, “La cativa lavandera a treuva mai la bon-a pèra” ("La cattiva lavandaia non trova mai la buona pietra"). Una serie di requisiti non facili da reperire contemporaneamente - una pietra semisommersa, facilmente raggiungibile, con intorno spazio asciutto, la corrente non troppo violenta, in un'ansa di acqua stagnante - ma che la lavandaia coscienziosa e capace trovava, mentre “la cativa lavandera”, cioè la accidiosa, il non riuscire a trovar la bon-a pera era la scusa più frequente per evitare il lavoro. La citata “donna della domenica” non è la protagonista del libro, ma colei che passa indenne nelle fatiche della investigazione. I lettori più arguti avranno capito che trattasi di giallo e individueranno facilmente la signora che, pur bon ton, resta ignava.

La Ditta F&L fa balenare di continuo la verità, per rivelarsi poi solo presunta, nel magico gioco di specchi e delle apparenze della cosiddetta buona società torinese. Parafrasandoli, Gloss scriverebbe di Torino come di una città castigata e guardinga, terribilmente mascher-(in)-ata in cui tuttavia sorgono le industrie più insospettabili, come quella di falli in pietra, gli “itifalli” - una parola nuova al giorno, l’obiettivo della buona letteratura - di Fruttero & Lucentini. Anzi, per usare le loro stesse inarrivabili parole, “è la più pronta a captare il Male a ogni angolo della terra e la sua funzione è di spargerlo in giro per il resto della penisola. In ognuno dei flagelli che opprimono la patria ci trova sempre la mano torinese. A cominciare dall’unità mazionale. E poi la prima automobile, i primi consigli di fabbrica, il cinema, la prima stazione radio, la televisione, gli intellettuali di sinistra, i sociologi, il Libro Cuore, il cioccolatino di lusso, l’opposizione extraparlamentare, insomma tutto. È una città straniera che odia l'Italia e manda i suoi messaggeri maledetti a diffondere ogni più abominevole trovata. I torinesi credono di essere dei pionieri e lo fanno a fin di bene.”

Geni e pure compresi, quelli della Premiata Ditta.


Consigliato non solo agli amanti del genere giallo, ma anche a quelli del gossip, di Torino e del magico mercatino del Balon, nonché ai ricercatori di parole e di arricchimento del lessico, come la buona letteratura dovrebbe saper fare.