mercoledì 25 luglio 2018

CARTOLINE DALLA FINE DEL MONDO

Mi pregio di cominciare con un’affermazione del Roversi che suonerebbe apocalittica se non fosse già reale: “«Risparmiare sull’educazione significa investire nell’ignoranza.»” e che mi fa amare d’emblée questo “manuale di cultura della milanesità”.

Mi capita sempre più spesso, ultimamente, di entrare in contatto con autori ed editori via Instagram, agli inizi un Social un po’ snobbato da me, più affezionata a Facebook,  roba da antichi per gli ultra cinquantenni come la sottoscritta, tranne da quando mi accorsi che il primo sta soppiantando il secondo. È qui che Paolo Roversi “risiede”, o, almeno, la sua casa editrice, la quale mi spedisce via e-mail il pdf da recensire. Poi, mentre sto scrivendo, lo trovo anche sul Social “antico”.

Fin dalle prime battute, avverto di “conoscere” il Roversi letterariamente parlando, emulo dell’eccelso Scerbanenco. Ma capita che a volte l’allievo superi il Maestro e questo è il caso del Roversi, così milanese nelle ossa da ambientare le “sue” vicende in quel di Milano in modo preciso e mirato.

Il poliziesco CARTOLINE DALLA FINE DEL MONDO inizia con la predisposizione della fuga del protagonista al Polo Sud, nei pressi di un Faraday Bar. Enrico Radeschi, nome milanesissimo fosse solo perché uno tra i più noti locali di apericene in zona Corso Garibaldi, è un ex giornalista sempre in collaborazione con la Questura che nel corso della narrazione scoverà un imitatore di prodezze geniali del Da Vinci. Ma l’incipit riguarda la sua precedente fuga da un eventuale assassinio: il proprio, per mano di un suo vecchio personaggio investigato. Inizia così: “«Hanno ammazzato una ragazza, Antonio. L’hanno uccisa al posto mio. Per colpa mia. Capisci? E ora l’assassino è sulle mie tracce...»”

e finisce così:

“Bentornato a casa Enrico. Ho visto il tuo video in rete in cui salvi le opere di Leonardo. Bravo! Ma non rilassarti troppo. Ho seguito le tue tracce fin qui al Faraday Bar, scovarti a Milano sarà una passeggiata. Inizia a preoccuparti perché ci rivedremo presto. Saluti dalla fine del mondo.
H.” Lascio a voi di scoprire perché si riferisce al titolo.

In Milano, soprattutto nella zona di Porta Romana (toh, che caso) esistono numerose trattorie per l’appunto romane frequentate dal Radeschi. Grazie al protagonista, scopro l'esistenza di un condimento per pastasciutta tipico della cucina laziale, a me sconosciuto, preparato facendo rosolare nell'olio guanciale e cipolla, con l'aggiunta di formaggio pecorino grattugiato. Sapete come si chiama? Siete curiosi? Leggete il libro.

Ricci, il nuovo questore, Loris Sebastiani, il vice questore, che “Ha più espressioni facciali il suo sigaro di lui.” (citazione da Sergio Leone che, da cinefila ed ex sceneggiatrice, non mi sfugge), il commissario Lonigro, dottor Ambrosio, Mascaranti, tutti nomi a me già noti, ma ancora dopo la lettura non so perché. Pur essendo accanita lettrice, non mi risulta di aver scorso in precedenza qualcosa del Roversi.  “Fino a cinque anni prima insegnava semiotica all’Università Statale e io e Loris lo conoscevamo dai tempi del nostro primo caso  insieme, quando ci aveva aiutato a scoprire chi si nascondesse dietro un’antica confraternita.” “Del resto, la voglia di ballare e cantare, i sudamericani ce l’hanno nel sangue: mi ricordo uno dei miei primi casi, quando ero capitato nella chiesa di Santo Stefano, accanto a quella di San Bernardino alle Ossa, frequentata principalmente da peruviani, salvadoregni ed ecuadoriani; ebbene, la messa cantata e partecipata da tutti era un vero spettacolo. Chissà se è ancora così.” I riferimenti ad altre indagini dell’ex giornalista Enrico Radeschi non mi aiutano. L’obiettivo della narrazione è catturare l’assassino autodefinitosi Mamba Nero alias il Serpente, che ammazza nei musei della città i tecnici della TechHackCorp. Piero Sartori ne è l’odioso direttore a tal punto da far affermare a chi si occupa delle indagini: “«Su una cosa ha ragione» dico (...) «Sarebbe?» chiede Lonigro. «Perché non uccidono lui?»” .

Anche per i più accorti fuggitivi, “La nostalgia quando arriva è come un fiume che rompe un argine: inonda e porta tutto via con sé. Come il grande fiume, il mio fiume, il Po.” Così, dopo anni di oculata e difficoltosissima rinuncia a tutto ciò che può essere rintracciabile (cellulari, computer, carte di credito…), il Radeschi torna a casa.

Come spesso mi capita di rilevare in opere che si rivelano eccelse, anche in questo poliziesco l’ironia salverà il mondo:  «Darla non è un’esortazione né un consiglio; solo uno stupido nome, d’accordo?»” ,  «Un secondo Darla, tieniti in caldo.» «Tieniti in caldo? Cosa sono, una minestra?»”, “Alle mani, che stringono un bicchiere di quello che sembra champagne, anelli d’oro e d’argento. Incarna davvero tutti gli stereotipi: un capo dell’Organizacija, la mafia russa, fatto e finito. Come noi temo.”  In Corso Buenos Aires a Milano: “Le librerie hanno quasi tutte chiuso: le mutande hanno avuto la meglio sul desiderio di cultura dei milanesi.” “«Il denaro è come il sesso: se non ce l’hai non pensi ad altro. Se ce l’hai pensi ad altro.»”

Da solita pistina letteraria qual sono, mi permetto di rilevare qualche imprecisione di traslitterazione dal milanese: “Ritornare a Lambrate dopo tutti questi anni mi regala un brivido; ci vivevo appena arrivato a Milano e, da allora, questo quartiere per me è una sorta di Montmartre baùscia.” “«Non far passare altri otto anni, però? Te salùdi.»” Due “ù” che, secondo la pronuncia dialettale, andrebbero con la dieresi. Ma magari mi sbaglio, visto che sono anch’io longobarda, ma non così tanto parlante milanese.

“Quando sei giornalista lo sei per sempre. Con o senza tesserino. Con o senza testata su cui  pubblicare. È la curiosità e il desiderio di andare a fondo nelle cose che ti spinge.” Infatti il Radeschi finisce per accettare il ruolo di cronista da un suo ex sottoposto, che ha, durante la fuga, avviato un sito di notizie in tempo reale, battendo la concorrenza cartacea.

Non volendo spoilerare, dico solo che la milanesità del Roversi, oltre che sui luoghi topos della città, (il toro in galleria cui pestare i gioielli, Santa Maria delle Grazie, il caffè più famoso di Milano, le osterie della periferia), si fonda quasi completamente sul Da Vinci, i suoi Codici, le sue Vigne, le sue Macchine, la sua Arte. Il mio applauso va all’ingegnosità tutta vinciana del Roversi per aver così ben congegnato la malefica "macchina letteraria" del criminale, degno dei migliori hacker nerd mondiali, riservandoci anche un raffinato colpo di scena finale.

Come sempre in chiusura, le mie osservazioni sulla vendibilità - o meno - del libro tramite la copertina: anche se non immediatamente riconoscibile come tale, c'è del giallo, quindi è vincente. 5 stelle anche su GoodReads.

Consigliato a coloro che amano i polizieschi, i marchingegni gialli come il Giallone della Vespa anni Cinquanta di Radeschi, a coloro che adorano la città più metropolitanamente europea d’Italia: Milano, agli estimatori di Leonardo Da Vinci.

PARTITURE PER UN ADDIO

Conosco l’autore Paolo Agrati via Facebook dove, a parte un invidiabile viaggio in Rajasthan nel 2017, condivide solo battute ironiche (non sempre apprezzabili), forse con l’intento di emulare “poeti” attualmente di moda ai Potery Slam, che hanno costruito il proprio successo su battute da basso cabaret televisivo. Potrei citare alcuni nomi particolarmente apprezzati dal largo pubblico, che però non compra poesia, chissà perché.

Quindi, come sempre, non ho precise aspettative, se non quella di una poesia corrotta da comicità presuntuosa. Invece  sono piacevolissimamente sorpresa dalla qualità lugubre delle composizioni, sia scritte che musicate. Infatti stavolta il libro in realtà è un cd, anzi, per meglio dire, una compilation musicale; al primo ascolto si direbbe di natura sperimentale, in collaborazione con notevole compositore/esecutore e uno speaker di elevata capacità (ma che non rispetta gli enjambements).

Solo in seguito scoprirò che lo speaker è l’Agrati stesso, il “cattivo” dei videogame di Batman1, nonché cantante della Band THE SPLEEN ORCHESTRA , il cui compositore e fonico è Simone Pirovano, che dà un'impronta da bassista  molto evidente nelle colonne sonore dell’Agrati.

THE SPLEEN ORCHESTRA, ispirata a film di Tim Burton, è nome quantomeno azzeccatissimo per il rigor mortis poetico di PARTITURE PER UN ADDIO. “L’idea è quella di raccontare il celebre regista attraverso un proprio linguaggio musicale e scenico mantenendo intatto lo spirito poetico delle pellicole. Cercando di riproporre, con un taglio “indie”, l’immaginario musicale e visivo di estrema ricchezza. Viene così a delinearsi il primo embrionale progetto della Spleen Orchestra – Tim Burton Show.” Cit.

Le poesie fin dall'incipit vanno subito in tema:

I
“ho scelto il pieno mistero della morte.”

II
“ci consuma piano finché di noi non resta/ che un soffio, un grumo di sangue guasto.”

III
“ma piano davvero, la vita perdersi/come moneta dal taglio della tasca.”.

L’esordio della silloge poetica dell’Agrati è tutt’altro che allegro, come ci si potrebbe aspettare invece dal suo temperamento via Social. Infatti, nei miei forforismi di Pastorology predico “la vita non è Facebook”. Se volete piaciarli e condividerli, seguite questo link, per favore.

Il seguito è una sorta di inno al suicidio. Attenzione, non mera istigazione, ma investigazione delle varie possibilità espressive insite nell’estremo gesto. Al che colgo finalmente il significato del titolo: è un addio non ad un* partner, non ad un luogo geografico, non a un lavoro. E’ un addio alla vita.

Esplorandone diverse modalità, per annegamento, per recisione dei polsi, per impiccagione, inscenando un incidente d’auto, una caduta dal trapezio nel circo, per mano di un sicario, sotto il convoglio della metro, per intossicazione farmacologica, oppure emulando gli attentatori delle Torri Gemelle, per un colpo di pistola, con monossido di carbonio dal tubo di scappamento, per esplosione di un ambiente saturo di gas da cucina, con tuffo dal balcone, con un frammento di specchio inferto al collo, dal ponte, per mano della Polizia, persino per malattia cancerosa - sembra che certe formazioni derivino la loro eziopatogenesi dalla psiche, quasi dalla volontà - l’Agrati vorrebbe augurarsi di trovare il modo ideale per decidere da sé la propria morte.

XXIV
“Prima sono andato a puttane di nascosto per provare/il gusto del tradimento. Perché fosse più amaro/per mia moglie, ho scelto una donna sciatta e avanti/negli anni e ci ho fatto tutto quello che il danaro/poteva pagare. Tra sette minuti e venti il mio corpo/fermerà la metropolitana nella quale lei, elegante/come ogni settimana, se ne va dal suo giovane amante.” Sottile ironia, pregevole gioco di contrasti.

XXXIII
“Pensavo non ci fosse/via d’uscita dal dolore. Illuso da una finta libertà/mi sono rinchiuso nei loro pensieri, per non uscirne più.” Anche la chiusura di una mente può essere considerata alla stregua della morte.

XLI
“ho guardato il sole e ho tolto le scarpe/perché per il volo non servono suole.” Da Ungaretti, di una lucidità terribile però.

PARTITURE PER UN ADDIO è ascoltabile e apprezzabile su BANDCAMP, un social per musicisti e musicofili. La mia immancabile critica sulla copertina è positiva e guadagna loro (musicisti, speaker, autore) le famigerate 5 stelle su GoodReads.

Mi ha commossa profondamente, perché anch’io nascondo un’anima malinconica dietro al sorriso che indosso tutti i giorni e, da musicofila qual sono, pure sensibile alle “scale minori”. Consiglio davvero di cuore all'Agrati di lasciar perdere le battute da basso Poetry Slam e di rivelare la vera natura della sua Arte, anche sui Social.

Consigliato ai malinconici, agli estimatori di Edgar Allan Poe e di Tim Burton, agli aspiranti suicidi per trovarvi un lato leggero, o, viceversa, ai cuori allegri come me per disvelare  l’altro lato della vita: la morte.

venerdì 13 luglio 2018

GRANDE MADRE ACQUA


Ricevo dall'editore CasaSirio un romanzo che non conoscevo, nonostante legga un centinaio di libri l'anno, dieci più, dieci meno, che è la storia di un'amicizia infantile tra Lem e Keïten in costante ricerca di una MADRE e di un MONTE, nonostante una direzione sadica, tra le pareti, anzi, tra i muri, meglio ancora dentro ai muri di un oscuro orfanotrofio russo negli Anni Quaranta, rinfrescato da amenità del tipo: “In fondo però, chi non ha desiderato, almeno una volta nella vita, di buttarsi senza pensare?”, da altre come: “Che io sia maledetto, il talento è una grande magia. E una sofferenza.”, fino all'uso patafisico delle parole “secoli” e “migliaia d'anni” al posto di “poche ore”.

La prima cosa che mi colpisce di questo romanzo è l'interiezione: “Che io sia maledetto”. Al ritmo di due volte per pagina. Praticamente, un tormentone. Che però alla lunga accompagna come una sicurezza attraverso le brutture e incertezze descritte dall'autore dal nome impronunciabile. Anzi, pregherei i lettori di mandarmene un audio con la corretta pronuncia al mio indirizzo e-mail: pastoristefaniagloss@gmail.com.

Si può definire uno scritto ottimista, quando si arriva a leggere massime come questa: “È triste, amico mio, è triste essere vivi e accorgersi che tutti ti hanno già cancellato. In quel momento non c’è più vita, per un uomo, nessun compito da portare a termine, solo quello di morire.”. Ovviamente, sono ironica. Capisco rapidamente che orrore e tristezza e "rassegnazione mai" sono la cifra stilistica del Čingo.

Nel riportare le sue citazioni, stavolta lascio appositamente il corsivo dove lui scrive in corsivo, e l'italico dove l'italico, perché l'autore alterna pagine riempite di considerazioni filosofiche in corsivo ad altre circa i fatti scritte in normale italico, identificando nei due diversi stili di carattere le relative differenziazioni semantiche. Qui, una delle sentenze, estrapolata dai corsivi, che identificano le sue riflessioni: “ciò che doni agli altri ti appartiene, ecco il senso di ogni cosa.
Rapidamente, all’interno dell’orfanotrofio, bambini e oggetti cominciarono a confondersi fino a divenire indistinguibili.”: qui invece una perfetta descrizione di alienazione fattuale affidata all'italico.

Descrizioni fulminanti per grigiore e sintesi: “Il mattino incombeva dolorosamente, spossato come l’albero dell’orfanotrofio, lacerato per metà.”, “Il Campanaro sgranò gli occhi a tal punto che, per poco, non gli cascarono in terra come bottoni scuciti.”, “Non si era mai visto uno spettacolo simile nel cortile dell’orfanotrofio. Magri, denutriti, i corpi ancora bambini, giravamo intorno alla nostra piccola ombra malconcia come folli. Non sapevamo che fare della nostra testa mutilata, delle nostre braccia rotte, di noi stessi.” e ancora: “Non mi lascio aprire bocca e mi getto a terra con la grossa mano da macellaio, tra le ceneri della primavera che sorgeva come una fiamma.”, “se si vuole punire qualcuno per tutta la vita, bisogna separarlo da ciò che ama di più al mondo.” o "trovate" come quella del "lisciare i capelli" per ore con le mani impastate di saliva, addormentarsi la notte con un fazzoletto in testa, per poi svegliarsi la mattina così: “peccato che al risveglio i capelli fossero divenuti colla, una vera e propria matassa da sbrogliare. Forza, provate a sbrogliarli, provate a pettinare quei capelli! Il prezzo sono lacrime e sangue. La forza del talento era tutta qui: poveri bambini, tutto ricominciava da capo, e dovevano di nuovo sopportare stoicamente le peggiori sofferenze.

Un talento a me sconosciuto, questo Čingo. Ne ricopio ampi brani per impararne lo stile e farlo mio.

Che io sia maledetto, erano scorci stregati. All’improvviso vedi uno spiraglio che scintilla, poi un altro, e un altro ancora. Era il più stupefacente e magico dei labirinti. Provate a individuare il punto esatto in cui lo sguardo di un bambino ha bucato il muro. La Direzione esaminava il muro ogni giorno, le punizioni erano severe e i buchi venivano tappati. Ciechi. A cosa poteva servire il cemento se, trascorso un solo istante, migliaia di buchi identici apparivano di nuovo?

Tutto l’orfanotrofio era immerso nella solita immobilità, la stessa calma glaciale che spesso regna nei cimiteri. Di tanto in tanto, capitava che uno di noi cercasse qualcun altro in sogno, allora i bambini mormoravano, parlavano da soli.” E poi nel bel mezzo della narrazione di una marachella tra ragazzini, una perla speculativa: “Bisognava invecchiare secoli per conservare intatta l’innocenza.

Oh madre mia, oh amico mio, oh la vita, oh gli uccelli, oh l’acqua, oh la casa...” era come una pugnalata al cuore. Evidentemente, quando si è così tristi, cantare o gridare non serve. - Calmati, Lem! Calmati, bambino - diceva Trifoun Trifounoski, spaventato e inquieto. Ma quale cuore sarebbe riuscito a placarsi, a fermare quel vento nefasto e distruttore? “Oh, divento cieco” diceva il mio testo e io, idiota, avevo gli occhi rovesciati, col bianco che riempiva del tutto le orbite, e il povero Trifoun Trifounoski pensò fosse la fine per la mia vista. - Povero bambino – disse.”

Il Piccolo Male, il Male Sacro dell'epilessia sembra attraversare le pagine del piccolo protagonista, come farebbe uno sciamano. Forse si spiega così l'inserimento a catalogo CasaSirio nella collana SCIAMANI.

- Mi vergogno - dissi, e scoppiai a piangere. Gli confessai che non avevo alcun talento, che detestavo le poesie, i romanzi e tutto il resto; gli confessai che si trattava di un istante di follia, d’incoscienza, di dolore, un dolore egoista e insignificante, e tutto per un uomo, quanta importanza per un solo uomo. Che io sia maledetto, proprio così, per un solo uomo.”

Nel cuore di Keïten non era cambiato nulla, regnavano ancora l’amicizia e l’amore, la solidarietà e l’accoglienza, il sorriso, il suo sorriso, e il desiderio, la fede nella Madre Acqua, la verità sul Monte Senterlev. Che io sia maledetto, questo monte esisteva, un monte luminoso tra nebbie dorate ed eterne. Quel sogno meraviglioso ci riapparve, niente poteva distruggere il nostro desiderio di libertà. Amico mio, avevamo dentro un sentimento gigantesco, l’amore. La Madre Acqua era ovunque, e lì dentro era la sola cosa che ci ricordasse la vita. Cosa potevamo volere di più?

Ancora adesso non riesco a capire quale verme abbia potuto rosicchiare a tal punto i nostri cuori – la fame, la paura, le punizioni, le umiliazioni quotidiane, il freddo, la nota sul dossier, forse le file e quel maledetto muro, o forse tutto insieme – ma una cosa era chiara come il giorno: lo spionaggio, la viltà e la cattiveria spuntavano nell’orfanotrofio come patate novelle. Tutti diffidavano di tutti, si nascondevano dagli altri e si chiudevano in loro stessi.

...avrei compreso che esistevano molte cose di cui non cogliamo immediatamente il senso, cose che non si lasciano vedere a occhio nudo, meraviglie che si nascondono negli oggetti, che ci aspettano pazienti mentre noi, spietati e ciechi, le calpestiamo distruggendole in maniera irrevocabile.

Eppure, celata dietro tutta questa negatività, ci sta la speranza. Proprio il più malmesso, ovvero Keïten, che fu affidato alle cure di Lem perché ritenuto responsabile, perché “con dossier aggiornato”, perché più savio, proprio Keïten compie la sua rivoluzione silenziosa, il miracolo di cambiare se stesso, e il malefico direttore, in buoni personaggi. Come? Ve lo lascio disseppellire con l'archetipo più antico del mondo.

Due parole, come mia consuetudine, sulla copertina. Nell'esplorare il catalogo di CasaSirio, un'editrice non a pagamento, (finalmente, leggi qui le mie valutazioni a riguardo), noto con piacere* l'unità grafica che ne caratterizza i libri. Eccellente coesione visuale, caratterizzata da armonia dell'impaginazione, dagli equilibri degli elementi visivi, alla euritmia dei cromatismi. Va necessariamente il mio plauso all'editrice. Cinque stelle su GoodReads anche per questo motivo. Invito CasaSirio a completarne la scheda.

Consigliato a chi riconosce nel potere dell'acqua l'eterno femminino e in quello della montagna discopre il maschile, a chi abbia vissuto un periodo della propria vita in luoghi oscuri e opprimenti per trovarvi comunque una ragione di speranza, a chi crede nella capacità di salvezza nell'essere empatici prima di tutto.

*Fui Art Director negli anni Ottanta a Milano.