martedì 21 giugno 2016

UMBERTO DEI

Michele Marziani ha inventato un sottotitolo al suo romanzo UMBERTO DEI, che recita: biografia non autorizzata di una bicicletta. Ho un grande rispetto per gli autori, sempre, ma non credo sia appropriato, perché non è una biografia. Per come si è svolta la narrazione, mi permetterei di suggerire invece: nascita del futuro

Voce narrante tra monologhi interiori e dialoghi col passato reincarnato nel presente attraverso vecchi compagni di Università e Nas, un giovane assistente meccanico proveniente dall'Afghanistan, il protagonista Arnaldo, ex promotore finanziario, ora vedovo riparatore di biciclette, parte orso auto-compiaciuto della sua solitudine e arriva capendo di non poter più stare solo. Il tipico percorso di cambiamento suggerito da ogni scuola di scrittura., inframezzato da rara poesia del quotidiano. Rara in senso di preziosa. Ho estrapolato gli esempi più ficcanti. Di sé, alla ritrovata compagna di Università Alberta, quando le confessa il timore di essere ricercato dai Carabinieri per piccole malefatte terroristiche di gioventù, Arnaldo dice:

Beh, sono stato un bastardo, come tutti in quel mondo. Ma onesto. Ho pagato le tasse e dell'economia non si sente l'odore. (…) la puzza, il marcio, la gente che sulle tue transazioni perde il lavoro, vede aumentare il prezzo del riso, magari muore di sete... No, è roba questa per cui non ti cercano i carabinieri. No, per questo no” commento amaro.

Della società italiana (o occidentale in genere) che male accoglierebbe un progetto costruttivo, invece:

Come se avesse senso oggi costruire qualcosa, qualcosa che funzioni intendo. In un mondo dove tutto si deve rompere in fretta per poterlo cambiare.

Al primo vero bacio di Alberta ad Arnaldo, lui si ritrae e dice:

Non credo sia una buona idea
Perché?
Perché io le persone le perdo.

Poi però si lascia andare, così meditando:

Che casino l'amore. (…) Con lutti, separazioni, addii, angosce, rinunce, stanchezze, ognuno ha le sue e magari, senza accorgersene, le inzuppa la mattina nel caffè.

Questa immagine della sofferenza condivisa inzuppata nel caffè mi commuove, perché la sento vera.

Tanta ironia fa capolino tra le amarezze, come quando Arnaldo sotto un'improvvisata copertura cristiana in missione “per conto di Dio ma non ho John Belushi come compagno di viaggio” pur di entrare in Afghanistan, commenta:

Ecco a cinquant'anni rischio l'arresto per traffico di bibbie.

Della Umberto Dei afghana, Nas dice ad Arnaldo:
È provato, se sulle mine antiuomo ci passi in bicicletta, con una di queste biciclette, puoi anche non esplodere e cavartela.
È provato scientificamente?
No, ho provato io e son qui a raccontartelo.

E conclude, superando ogni amarezza:

Sarà ora che li vada a trovare i miei vecchi.

Al di là del rispetto delle regole canoniche di sviluppo narrativo, Michele Marziani dimostra di padroneggiare non solo un italiano dolente e amaro, poetico e ironico, ma anche le tematiche antropologiche del vivere in Italia.


Consigliato ai nostalgici redivivi della Milano popolare e del Bar Magenta come me, a coloro che videro nella lotta armata degli Anni di Piombo la soluzione, a chi crede che la costruzione di un futuro migliore possa cominciare soltanto in Asia.

lunedì 20 giugno 2016

TRANNE IL COLORE DEGLI OCCHI

Mi applico a questo libro come con tutti gli altri, cioè senza leggere biografia la dell'autrice, Roberta Marcaccio, e nemmeno la sinossi, perché voglio conservarmi aperta ad ogni possibilità che la lettura mi darà. Però stavolta ammetto che sarebbe stato meglio leggere almeno la sinossi, perché TUTTO TRANNE IL COLORE DEGLI OCCHI è l'esempio perfetto di come non iniziare un romanzo e di come si debba invece finirlo.

Infatti, ne leggo i primi due terzi con malavoglia e lentezza che non mi appartengono, tali da dovermi fermare e chiedermi perché. Appaiono personaggi ingiustificati, senza apparente nesso narrativo tra loro. Non c'è apparente sviluppo dialettico. La noia apparente mi assale a tal punto di volerlo quasi abbandonare. Ma l'ho fatto solo temporaneamente, dedicandomi ad altre letture e ai Poetry Slam. Per fortuna.

Perché poco più di un'ora fa, prima di scriverne la recensione, riprendo in lettura dell'ultimo terzo e lo finisco in un attimo. Finalmente il plot si sviluppa e scorre agile sotto i miei occhi. E in più, si chiude con un fatidico spiegone (termine che di norma uso in modo deleterio, ma in questo caso no, perché necessario alla storia) che unisce personaggi e vicende precedenti e un finale che regala commozione perché nell'avvicinare le strade delle due protagoniste fino alla morte, avvicina i loro eredi meritevoli d'amore l'uno per l'altra, per compensare i destini apparentemente stolidi delle due protagoniste. 

Apparentemente, un avverbio che accompagna TUTTO TRANNE IL COLORE DEGLI OCCHI, per scoprire che solo apparentemente è un romanzo d'amore, ma alla fine è un giallo, pur non avendone il costrutto.

Consigliato a chi vuole andare oltre le apparenze dell'amore fraterno, a chi cerca un lieto fine a tutti i costi, a chi cerca l'amore anche dove non c'è. E lo scopre.



lunedì 13 giugno 2016

A GALLA

A causa di un'inopportuna “dritta” dell'autore Alessandro Toso, pensavo di aver iniziato un romanzo sulla falsa riga delle CINQUANTA SFUMATURE, ambientato nella profonda provincia veneta tra personaggi della Middle Class. Avendone letto a suo tempo LE NERE e avendole ribattezzate CINQUANTA SFUMATURE DI NOIA, mi ero arenata nella lettura (e nel giudizio) sulle peripezie di una coppia di annoiati fedifraghi. Eppure A GALLA era ben scritto, con tratti di originalità autentica. Pensavo lì per lì di mollarli alle loro acrobazie erotiche, quando il romanzo cambia registro. R A D I C A L M E N T E.

Dopotutto, la piccola e media impresa era il motore del NordEst, no? E i motori non si fermano neanche per il weekend. Ora però la corsa del bolide si era schiantata contro un muro di cemento spesso tre metri, portando via con sé piloti e passeggeri. Nel giro di tre o quattro anni buona parte degli artigiani e dei grossisti della zona avevano dovuto chiudere bottega.”

È la svolta. Da questo momento in poi, il romanzo si lascia alle spalle le SFUMATURE della Middle Class, per assumere quelle della WorkingClass. E, in parte, del giallo. Tra scioperi, okkupazioni con la cappa, rapimenti, innamoramenti adolescenziali, prezzolamenti e morti coraggiose, il tutto si riassume in un telegrafico periodo del Toso: “Purificazione. Espiazione. Rinascita.”

Per poi finire moraleggiato da uno dei personaggi meno moraleggianti, Marcellone, un ignorantone che se ne sbatte delle istanze operaie, ma si redime con un nobile gesto di chiusura. “È come quella canzone. Vivi in fretta e muori giovane.”

Un appunto all'Editor, per altro impeccabile. Un appunto che riconosco essere pignoleria pura, o che vuole semplicemente mettere in luce la mia cultura. A pag. 418 il personaggio principale parla con orgoglio della propria figliola, come sua degna erede caratteriale avendola presa in braccio alla nascita prima ancora della madre, come ad averle dato il suo imprimatur.

Imprimatur deriva dalla locuzione latina “Nihil obstat quominus imprimatur”, tradotta letteralmente in “Non esiste alcun impedimento al fatto di essere stampato.” Fu la chiesa che coniò l'espressione quando concedeva il nulla osta in piena caccia alle streghe. Ma, se si tratta di figli, temo che in questo caso vi sia un errore grossolano. Se volessimo concedere loro il beneficio di non essere bruciati sul rogo, allora sarebbe ammessa l'espressione imprimatur. Ma se vogliamo definire una particolare modalità di apprendimento che può avvenire solo nelle prime ore dopo la nascita, sarebbe meglio parlare di imprinting, come ci insegnò l'etologo tedesco Konrad Lorenz.

Adesso forse mi è chiaro il titolo A GALLA: sarà perché nonostante le grossolanità, (un incipit avulso dal contesto, imprecisioni scientifico-lessicali) resta comunque a … galla.

Consigliato a chi ha fatto delle lotte operaie il proprio scopo di vita e a chi, pur essendo padrone, non ne conosce ancora le istanze.

sabato 11 giugno 2016

AMORE OBLIQUO

È la prima volta che leggo un romanzo senza prendere appunti. Non l'ho fatto perché non ho potuto. Mi ha travolta. L'ho dovuto finire subito perché è il finale a determinare se un romanzo è buono oppure no. Il finale ha confermato ciò che avevo sospettato fin da subito.

A chi mi ha passato AMORE OBLIQUO ieri avevo scritto le seguenti parole:
Sono solo alla pag. 33 di e mi sta conquistando. Forse non sarà il romanzo del secolo, ma al momento VINCE. È un autore che sa scrivere. Ti dirò il mio sì definitivo in base al finale.”

Fin qui le mie riflessioni di ieri. Premetto che non leggo mai in anticipo sinossi e note biografiche degli autori, per non farmi influenzare. Stanotte l'insonnia complice mi ha portato quasi a finirlo. Durante un errore di scorrimento pagina, sono incappata nelle note bio. Fino a quel punto, si sarebbe detto scritto da un uomo, ma l'autore è donna, Maria Teresa Casella e questo mi sorprende per come ha gestito i comportamenti del protagonista, uomo. Avevo visto giusto: si trattava di un'autrice rotta da tempo alla letteratura di qualità. Già alla pag. 83 mi aveva convinto del tutto la seguente frase:

“Morte di una bambina molto piccola con una sorella molto stronza. Fu un evento catastrofico ma non fui io a provocarlo. Io mi limitai a sfruttare l'occasione.”

L'incipit del romanzo non è fulminante come quelli di Angelo Ricci ed è un peccato. Il capitolo che finisce con quella frase invece sì. Chissà se l'autrice accetterebbe lo scambio.

Maria Teresa Casella si muove con sorprendente facilità in un binomio di romantica memoria (in senso letterario). Infatti, il movimento ottocentesco del Romanticismo rispolverò il topos Amore e Morte strettamente connesse l'uno all'altra, archetipo già esplorato nella Tragedia della Grecia Classica. In più, sulla scorta di successi letterari come la trilogia delle CINQUANTA SFUMATURE, la Casella riesce ad aggiungere la freschezza del peperoncino, senza sconfinare nel facile porno. I personaggi sono così ben tratteggiati, i loro atteggiamenti così verosimili, i dialoghi così credibili, che il lettore resta spiazzato dal finale disperante. Spiazzato in bene.

Unica critica, che vuole essere costruttiva, per la copertina. Pur contenendo tutti gli elementi giusti, è troppo giocata sui contrasti forti, essendo il protagonista equilibrato tra i grigi.


Consigliato a chi cerca commistione tra giallo ed eros. Agli adulti adolescenti, ad adolescenti resi adulti troppo presto.

mercoledì 8 giugno 2016

IL NOSTRO DUE AGOSTO (NERO)

Luca Martini è un grande scrittore. Coraggioso. Più di lui, l'editore, Antonio Tombolini, che ha creduto nel progetto di Martini: raccogliere (e pubblicare) le testimonianze dirette e indirette sulla strage del 2 agosto 1980, a Bologna. Lasciandole così come sono uscite dalle penne dei testimoni, anche se improvvisate e senza editor.

Ivo Tiberio Ginevra, 53 anni
2, 28, 12
È il primo dei racconti a muovermi un moto dell'anima verso le lacrime.

Massimiliano Maestrello, 33 anni, Palù, (Verona)
Parlarne davvero.
L'ignoranza della generazione successiva.
Un papà con figlioletto in braccio: “So solo che poco dopo lo ha baciato sulla tempia, in mezzo ai capelli sudati. E poi ha fatto questo: ha cominciato a leggergli i nomi scritti sulla lapide. Ad alta voce. Ad uno ad uno.”
Mi ispira il mio racconto della strage.

Senza numero. Persona senza nome, anni imprecisati, luogo ignoto.
Io volevo solo andare in vacanza.
La raccolta finisce con i pensieri di uno sconosciuto, di invenzione, certo, ma pur sempre reale come gli altri ottantacinque. Muore lasciando il vuoto di non senso di una strage. LA strage. Mi lascia l'orgoglio di averne scritto io il ricordo a imperitura memoria, come si diceva una volta sulle lapidi. Ora so perché si usa dire IMPERITURA.

(Nb: fosse stato per la copertina, non l'avrei scelto. Non a livello di quelle di Marta D'Asaro)


Consigliato alle scolaresche del presente e del domani. Ai loro professori. Al memento mori.

La mia storia del 2 agosto 1980.

Il due agosto millenovecentottanta lo ricordo bene. Avevo quindici anni ed ero in vacanza coi miei genitori, roulottisti navigatori d'Italia e d'Europa. Ad Ascea, sulla costiera salernitana, praticavamo campeggio libero in spiaggia, a cerchio con altre due roulotte, come gli zingari. Noi stessi amavamo chiamarci così. Gli altri, li avevamo conosciuti l'anno precedente sempre lì, ad Ascea. Una famiglia di Torino, un'altra di Imola.

Tonino era il papà dei due fratelli imolesi. Di Taranto, sentiva forte ancora l'appartenenza al mondo del sud, infatti praticava sempre pesca subacquea, tornando con grondanti grappoli di polpi. Amava preparare muscoli alla tarantina, con sugo al pomodoro e friselle. Quella mattina, a pranzo, avremmo mangiato una quintalata di cozze. Tonino sentiva molto anche l'appartenenza alla sua patria di adozione, al territorio bolognese. L'avrei capito di lì a poco. Erano circa le 13 e tutti e undici, Michelina e Enzo con la loro Cristina, Tonino e Ardea coi loro Andrea e Alfredo, Marisa e Lele, con Fabio e me, ci stavamo apprestando a pranzare sotto il tendalino della nostra roulotte, l'unica dotata di TV in bianco nero con le antennine da regolare. Lo speaker annunciò la bomba. Tonino impietrì. Io non colsi. Nell'avventatezza delle nostre adolescenze, nessuno colse. Ma Tonino sì. Tonino lacrimò.

Negli anni a seguire, imparai a conoscere l'epoca stragista. Appresi molto dal film di Sorrentino, IL DIVO, che è tutto dire: la verità solo al cinema, finzione per antonomasia. Grazie a Sorrentino, appresi il significato delle lacrime di Tonino. Poi ad aprile del duemilasedici, mi dovetti fermare un paio d'ore in una sala d'aspetto della stazione ferroviaria di Bologna. Bologna mi era sempre piaciuta, nelle nostre peregrinazioni da zingari ci eravamo transitati e fermati tante volte. 

C'era un grande orologio fermo alle 10.25. Eppure erano le 18. Non capii subito che era LA sala d'aspetto. Un'austera sala d'aspetto, con una insolita architettura. Nella parete che dava sui binari vi era come un'interruzione, che lì per lì pigliai per il rigurgito modernista dell'architetto. Tutti i presenti erano affaccendati nei casi loro, io nel mio immancabile libro, credo fosse LA VITA SESSUALE DELLE GEMELLE SIAMESI di Irvine Welsh. Ma quella insolita architettura mi chiamava. Alzavo gli occhi dal libro e mi chiedevo perché. Sembrava una spaccatura nel muro. O meglio, una breccia. Mi venne in mente la Breccia di Porta Pia. Poi la vista si adattò al controluce e vidi i nomi scalpellati nel muro. Ottantacinque nomi e cognomi. L'orologio fermo. I nomi. Colsi.

Mi alzai, abbandonando il libro, il che, nel mio caso, è tutto dire. Mi avvicinai al muro della bomba. Lessi ad uno ad uno tutti gli ottantacinque nomi, nella mia mente formai ottantacinque persone. Giunsi le mani a preghiera e li rilessi tutti. Ad alta voce. Il tempo si fermò. Ancora una volta. In quell'istante, potevo sentire le urla, gli ansimi, il rimbombo, avvertire sulla mia pelle la polvere e i calcinacci, annusare l'aria al tritolo, T4 e gelatinato di quel due agosto millenovecentottanta, ore 10.25. Nell'indifferenza degli altri passeggeri. La più grande sconfitta degli uomini è dimenticare. 
Ora so che porterò i miei figli in pellegrinaggio, qui.

L'ODORE DEL RISO

Un tempo, fui assistente di un pittore famoso negli anni '70, poi decaduto. Il suo motto era: “Il colore è tutto.” O forse era il motto di Carlo Carrà, non ricordo. Angelo Ricci potrebbe assumerlo come proprio. Il colore in tutte le sue declinazioni screziate ravviva ogni pagina del suo scrivere.

L'incipit è fulminante, inchioda alla sedia/divano/letto/tazzadelcesso e impedisce di pensare ad altro. “Io so tutto di voi.” Io chi? Voi chi?
Eppure, c'è già tutto. Lo spazio: quella troia della pianura padana. Il tempo: l'oggi coi suoi soldi sporchi da lavare. I protagonisti: gli americani del sud che costruiscono. Il cosa: villette a schiera. Il chi: il venditore/narratore, sgamato.

Patotas.
Daglielo al Mondo!
Si susseguono parole messe lì non a caso, ma solo per renderti incapace di capire. Si direbbe poesia in prosa, anzi, meglio, prosa in forma di poesia. Sensualità. Sessualità. Scorci. Squarci di colore e fiori e finestre.

La Taverna. Insegna a pezzi. Plastica opalescente annerita dallo sfinimento dei neon. Memorie perse dai colori morti.” Ecco dove si trova la poesia di Ricci: nelle plastiche consunte. “Tir dalle bocche sguaiate e urlanti muggiscono la loro presenza definitiva. Muovendo pacchi caldi di aria bollente.” Ma anche nel movimento dei Tir. Una poesia che sorprende, che spiazza, che narra l'inenarrabile. “Io so tutto di voi.” Io chi? Voi chi?

Dopo un centinaio di pagine si capisce che quel Mondo con la maiuscola è una persona che fa lo sfasciacarrozze. Il “Daglielo” è l'invito a dargli un vecchio motorino arrugginito. L'invito è pretesto per un dramma consumato tra ragazzini. È preludio per la costruzione di uno dei personaggi chiave.

Ancora una volta si volse a guardare la porta del garage. Era lì che era successo tutto. Era lì.” Per l'ennesima volta sembra riaffacciarsi un ricordo di una ricca ragazza grassa che appare a sprazzi. Per l'ennesima volta, Ricci non ce lo svela.

Poi c'è la faccenda di una ragazza nuda e prigioniera. Di uomini che si direbbero dalla parte della legge. Ma violentemente grezzi. La ragazza muore per sbaglio. Infine sapremo che è solo uno degli innumerevoli interrogatori a suon di pungolate elettriche, di cadaveri che spariscono nell'Atlantico dell'America del Sud.

Infine sapremo anche cosa successe nel garage. Ma non ne farò spoiler, perché è annodato strettamente ai cadaveri nascosti nell'Atlantico. E anche a colui che afferma: “Io so tutto di voi.”

Infine sapremo anche della parola misteriosa. Patotas. E il significato dell'odore del riso. Scopriremo anche come tutto si lega in una di quelle geometrie perfette che aprono il libro e lo chiudono. Ricci, geometra perfetto della narrazione. Dopo Scerbanenco, solo Ricci, che sta reinventando la narrativa gialla. Solo un difetto: gli spiegoni, ma si capisce che Ricci non avrebbe voluto farli.

Consigliato a chi ama gli incastri geometrici della narrazione, a chi vuole uscire dai consumati rigori del giallo. Ai poeti della banalità del male.