mercoledì 8 giugno 2016

IL NOSTRO DUE AGOSTO (NERO)

Luca Martini è un grande scrittore. Coraggioso. Più di lui, l'editore, Antonio Tombolini, che ha creduto nel progetto di Martini: raccogliere (e pubblicare) le testimonianze dirette e indirette sulla strage del 2 agosto 1980, a Bologna. Lasciandole così come sono uscite dalle penne dei testimoni, anche se improvvisate e senza editor.

Ivo Tiberio Ginevra, 53 anni
2, 28, 12
È il primo dei racconti a muovermi un moto dell'anima verso le lacrime.

Massimiliano Maestrello, 33 anni, Palù, (Verona)
Parlarne davvero.
L'ignoranza della generazione successiva.
Un papà con figlioletto in braccio: “So solo che poco dopo lo ha baciato sulla tempia, in mezzo ai capelli sudati. E poi ha fatto questo: ha cominciato a leggergli i nomi scritti sulla lapide. Ad alta voce. Ad uno ad uno.”
Mi ispira il mio racconto della strage.

Senza numero. Persona senza nome, anni imprecisati, luogo ignoto.
Io volevo solo andare in vacanza.
La raccolta finisce con i pensieri di uno sconosciuto, di invenzione, certo, ma pur sempre reale come gli altri ottantacinque. Muore lasciando il vuoto di non senso di una strage. LA strage. Mi lascia l'orgoglio di averne scritto io il ricordo a imperitura memoria, come si diceva una volta sulle lapidi. Ora so perché si usa dire IMPERITURA.

(Nb: fosse stato per la copertina, non l'avrei scelto. Non a livello di quelle di Marta D'Asaro)


Consigliato alle scolaresche del presente e del domani. Ai loro professori. Al memento mori.

La mia storia del 2 agosto 1980.

Il due agosto millenovecentottanta lo ricordo bene. Avevo quindici anni ed ero in vacanza coi miei genitori, roulottisti navigatori d'Italia e d'Europa. Ad Ascea, sulla costiera salernitana, praticavamo campeggio libero in spiaggia, a cerchio con altre due roulotte, come gli zingari. Noi stessi amavamo chiamarci così. Gli altri, li avevamo conosciuti l'anno precedente sempre lì, ad Ascea. Una famiglia di Torino, un'altra di Imola.

Tonino era il papà dei due fratelli imolesi. Di Taranto, sentiva forte ancora l'appartenenza al mondo del sud, infatti praticava sempre pesca subacquea, tornando con grondanti grappoli di polpi. Amava preparare muscoli alla tarantina, con sugo al pomodoro e friselle. Quella mattina, a pranzo, avremmo mangiato una quintalata di cozze. Tonino sentiva molto anche l'appartenenza alla sua patria di adozione, al territorio bolognese. L'avrei capito di lì a poco. Erano circa le 13 e tutti e undici, Michelina e Enzo con la loro Cristina, Tonino e Ardea coi loro Andrea e Alfredo, Marisa e Lele, con Fabio e me, ci stavamo apprestando a pranzare sotto il tendalino della nostra roulotte, l'unica dotata di TV in bianco nero con le antennine da regolare. Lo speaker annunciò la bomba. Tonino impietrì. Io non colsi. Nell'avventatezza delle nostre adolescenze, nessuno colse. Ma Tonino sì. Tonino lacrimò.

Negli anni a seguire, imparai a conoscere l'epoca stragista. Appresi molto dal film di Sorrentino, IL DIVO, che è tutto dire: la verità solo al cinema, finzione per antonomasia. Grazie a Sorrentino, appresi il significato delle lacrime di Tonino. Poi ad aprile del duemilasedici, mi dovetti fermare un paio d'ore in una sala d'aspetto della stazione ferroviaria di Bologna. Bologna mi era sempre piaciuta, nelle nostre peregrinazioni da zingari ci eravamo transitati e fermati tante volte. 

C'era un grande orologio fermo alle 10.25. Eppure erano le 18. Non capii subito che era LA sala d'aspetto. Un'austera sala d'aspetto, con una insolita architettura. Nella parete che dava sui binari vi era come un'interruzione, che lì per lì pigliai per il rigurgito modernista dell'architetto. Tutti i presenti erano affaccendati nei casi loro, io nel mio immancabile libro, credo fosse LA VITA SESSUALE DELLE GEMELLE SIAMESI di Irvine Welsh. Ma quella insolita architettura mi chiamava. Alzavo gli occhi dal libro e mi chiedevo perché. Sembrava una spaccatura nel muro. O meglio, una breccia. Mi venne in mente la Breccia di Porta Pia. Poi la vista si adattò al controluce e vidi i nomi scalpellati nel muro. Ottantacinque nomi e cognomi. L'orologio fermo. I nomi. Colsi.

Mi alzai, abbandonando il libro, il che, nel mio caso, è tutto dire. Mi avvicinai al muro della bomba. Lessi ad uno ad uno tutti gli ottantacinque nomi, nella mia mente formai ottantacinque persone. Giunsi le mani a preghiera e li rilessi tutti. Ad alta voce. Il tempo si fermò. Ancora una volta. In quell'istante, potevo sentire le urla, gli ansimi, il rimbombo, avvertire sulla mia pelle la polvere e i calcinacci, annusare l'aria al tritolo, T4 e gelatinato di quel due agosto millenovecentottanta, ore 10.25. Nell'indifferenza degli altri passeggeri. La più grande sconfitta degli uomini è dimenticare. 
Ora so che porterò i miei figli in pellegrinaggio, qui.

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