Luca Martini è un grande scrittore.
Coraggioso. Più di lui, l'editore, Antonio Tombolini, che ha creduto
nel progetto di Martini: raccogliere (e pubblicare) le testimonianze
dirette e indirette sulla strage del 2 agosto 1980, a Bologna.
Lasciandole così come sono uscite dalle penne dei testimoni, anche
se improvvisate e senza editor.
Ivo Tiberio Ginevra, 53 anni
2, 28, 12
È il primo dei racconti a muovermi un
moto dell'anima verso le lacrime.
Massimiliano Maestrello, 33 anni, Palù,
(Verona)
Parlarne davvero.
L'ignoranza della generazione
successiva.
Un papà con figlioletto in braccio:
“So solo che poco dopo lo ha baciato sulla tempia, in mezzo ai
capelli sudati. E poi ha fatto questo: ha cominciato a leggergli i
nomi scritti sulla lapide. Ad alta voce. Ad uno ad uno.”
Mi ispira il mio racconto della strage.
Senza numero. Persona senza nome, anni
imprecisati, luogo ignoto.
Io volevo solo andare in vacanza.
La raccolta finisce con i pensieri di
uno sconosciuto, di invenzione, certo, ma pur sempre reale come gli
altri ottantacinque. Muore lasciando il vuoto di non senso di una
strage. LA strage. Mi lascia l'orgoglio di averne scritto io il
ricordo a imperitura memoria, come si diceva una volta sulle lapidi.
Ora so perché si usa dire IMPERITURA.
(Nb: fosse stato per la copertina, non l'avrei scelto. Non a livello di quelle di Marta D'Asaro)
Consigliato alle scolaresche del
presente e del domani. Ai loro professori. Al memento mori.
La mia storia del 2 agosto 1980.
Il due agosto millenovecentottanta lo
ricordo bene. Avevo quindici anni ed ero in vacanza coi miei
genitori, roulottisti navigatori d'Italia e d'Europa. Ad Ascea, sulla
costiera salernitana, praticavamo campeggio libero in spiaggia, a
cerchio con altre due roulotte, come gli zingari. Noi stessi amavamo
chiamarci così. Gli altri, li avevamo conosciuti l'anno precedente
sempre lì, ad Ascea. Una famiglia di Torino, un'altra di Imola.
Tonino era il papà dei due fratelli
imolesi. Di Taranto, sentiva forte ancora l'appartenenza al mondo del
sud, infatti praticava sempre pesca subacquea, tornando con grondanti
grappoli di polpi. Amava preparare muscoli alla tarantina, con sugo
al pomodoro e friselle. Quella mattina, a pranzo, avremmo mangiato
una quintalata di cozze. Tonino sentiva molto anche l'appartenenza
alla sua patria di adozione, al territorio bolognese. L'avrei capito
di lì a poco. Erano circa le 13 e tutti e undici, Michelina e Enzo
con la loro Cristina, Tonino e Ardea coi loro Andrea e Alfredo,
Marisa e Lele, con Fabio e me, ci stavamo apprestando a pranzare
sotto il tendalino della nostra roulotte, l'unica dotata di TV in
bianco nero con le antennine da regolare. Lo speaker annunciò la
bomba. Tonino impietrì. Io non colsi. Nell'avventatezza delle nostre
adolescenze, nessuno colse. Ma Tonino sì. Tonino lacrimò.
Negli anni a seguire, imparai a
conoscere l'epoca stragista. Appresi molto dal film di Sorrentino, IL
DIVO, che è tutto dire: la verità solo al cinema, finzione per
antonomasia. Grazie a Sorrentino, appresi il significato delle
lacrime di Tonino. Poi ad aprile del duemilasedici, mi dovetti
fermare un paio d'ore in una sala d'aspetto della stazione
ferroviaria di Bologna. Bologna mi era sempre piaciuta, nelle nostre
peregrinazioni da zingari ci eravamo transitati e fermati tante volte.
C'era un
grande orologio fermo alle 10.25. Eppure erano le 18. Non capii
subito che era LA sala d'aspetto. Un'austera sala d'aspetto, con una
insolita architettura. Nella parete che dava sui binari vi era come
un'interruzione, che lì per lì pigliai per il rigurgito modernista
dell'architetto. Tutti i presenti erano affaccendati nei casi loro,
io nel mio immancabile libro, credo fosse LA VITA SESSUALE DELLE GEMELLE SIAMESI di
Irvine Welsh. Ma quella insolita architettura mi chiamava. Alzavo gli
occhi dal libro e mi chiedevo perché. Sembrava una spaccatura nel
muro. O meglio, una breccia. Mi venne in mente la Breccia di Porta
Pia. Poi la vista si adattò al controluce e vidi i nomi scalpellati
nel muro. Ottantacinque nomi e cognomi. L'orologio fermo. I nomi.
Colsi.
Mi alzai, abbandonando il libro, il
che, nel mio caso, è tutto dire. Mi avvicinai al muro della bomba.
Lessi ad uno ad uno tutti gli ottantacinque nomi, nella mia mente
formai ottantacinque persone. Giunsi le mani a preghiera e li rilessi
tutti. Ad alta voce. Il tempo si fermò. Ancora una volta. In
quell'istante, potevo sentire le urla, gli ansimi, il rimbombo,
avvertire sulla mia pelle la polvere e i calcinacci, annusare l'aria
al tritolo, T4 e gelatinato di quel due agosto millenovecentottanta,
ore 10.25. Nell'indifferenza degli altri passeggeri. La più grande
sconfitta degli uomini è dimenticare.
Ora so che porterò i miei
figli in pellegrinaggio, qui.
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