domenica 26 novembre 2017

NEVE SEGRETA

Questa volta mi accingo a scrivere la recensione di un breve romanzo di Giacomo D'Alia, un autore che conosco di persona da anni, consapevole di rischiare la mancanza di oggettività, cosa che evito
ogni volta. Come se non bastasse, questa persona ha compiuto nei miei confronti una manchevolezza che non ho ancora davvero perdonato. Cerco di predisporre l'animo in senso favorevole, come contro tendenza. Ma è solo al risuonare di quel passaggio che sento finalmente l'animosità abbandonarmi.

Che me ne importava se mamma non mi abbracciava mai e non mi dava i baci. Ero contenta così. Sarei dovuta crescere, avrei dovuto fissare i miei primi capelli grigi davanti allo specchio per capire quanto mi fossero mancati i suoi baci.”

Mi risuona dentro, perché anche a mia mamma per la più parte dei miei anni ho rimproverato la mancanza di gesti affettuosi.

Con una scrittura seria ed onesta, chiara e pulita, senza tanti fronzoli, l'originalità della narrazione si fonda sull'alternanza di tre spazi temporali distinti, caratterizzati tutti e tre da un'abbondante quanto inusuale nevicata, dato il luogo: una Roma sempre immota. E dalla ricorrenza di un segreto che non ci è dato di sapere, solo di intuire. Da qui il titolo.

Il 9 febbraio 1965 è il giorno in cui il D'Alia in un solo breve capitolo presenta la protagonista che racconta in prima persona le sue esperienze di bimba in età di elementari, con le sue piccole e innocenti manie, i cuoricini disegnati sui vetri col ditino, l'odio da sempre per il suo vero nome, Apollonia, quello che le piace e con cui invece la chiamano tutti, Lucia; la sensazione dei baffi di papà sulle gote, pungenti e intrisi di nicotina, la nostalgia di una mamma assente perché impiegata ad alto livello in banca; l'affetto di e per la zia accudente in casa quasi a farle da mamma vera, il villino dove vivono tutti e quattro. Due donne, sorelle, e un uomo, in un sereno e ben strutturato ménage à trois che mi insospettisce subito, ma resto in attesa degli eventi, sospendendo il giudizio.

Il 9 febbraio 1956, anno in cui il D'Alia usa invece la terza persona, ci parla di Adriana e Fausto, una coppia sposata e giovane, che vive in un villino, alle prese con una gran nevicata. Adriana esce di mattina presto per recarsi al lavoro di responsabile in una banca della capitale, cosa inedita negli anni '50 italiani. Direi persino abbastanza inedita oggi, avendo compiuto il giro di secolo e sessantanni dopo. Infatti, viene presentata come donna determinata perché ci va a piedi, nonostante neve e gravidanza, nonostante le sagge raccomandazioni del marito Fausto.

Il 24 gennaio 2009 il D'Alia torna alla narrazione in prima persona: capiamo che è Lucia, la bimbetta ormai donna. Da cuoco esperto d'alta cucina letteraria, il D'Alia ci soffrigge poco a poco, aggiungendo tanti piccoli ingredienti che fanno la differenza: alcuni dettagli toponomastici, il villino abitato da due sorelle anziane, quel cancello cigolante, il cartello vendesi, l'attesa di un partner che sappiamo già non verrà.

Si direbbe quasi un giallo perché crea la giusta suspence con lettere segrete nascoste tra libri, sussurrati segreti, lotte armate non proprio segrete e padri magistrati che non tanto segretamente difendono figlie scapestrate. Lucia è una di queste che, altalenando tra bande armate e bulimia e anoressia, tenta di uccidere l'alta borghesia dove nacque, annientando se stessa.

Il D'Alia è davvero un gran Alchimista, in perfetto equilibrio tra sentimenti contrastanti (l'odio/amore per i genitori - quali? - e verso la società, gli affetti per partner mai puntuali e per figli mai nati), ma soprattutto per aver interpretato con precisione millimetrica tre figure femminili pur essendo uomo. Ma il mio plauso va per aver saputo utilizzare con maestria regole paradigmatiche ben note, stravolgendole. Mai infatti passare da una narrazione in prima persona ad una in terza. Eppure il D'Alia ci riesce benissimo.

Solo un paio di piccolissimi e irrilevanti appunti, che avrei potuto benissimo tralasciare, se non dovessi mantenere alta la mia figura di implacabile recensora. Tre errori sfuggiti all'Editor, uno non me lo ricordo, ma so che c'è; un “se”, riferito a “se stesso”, ma senza stesso: quindi avrebbe dovuto supportare l'accento acuto del sé; una parola tronca senza sillaba finale. Ma quello che più mi “infastidisce” (e lo metto appositamente virgolettato proprio perché è un niente), è l'uso della parola dialettale “sgrullare” quando Pepe, il cagnolino di Lucia, compie l'azione di scuotersi via l'acqua dal pelo. Nulla da eccepire: si tratta di un normalissimo dialetto italiano, a dire il vero sentito quassù al nord solo al termine di una delicata operazione maschile quando scarica i propri liquidi dall'apparato. Fin qui niente di male, ma la ricchezza di vocabolario del D'Alia si smentisce quando ripete ad oltranza questo verbo, sebbe l'italiano sia ricco di sinonimi: scuotere, scotolare, agitare, sbatacchiare, scrollare, dimenare... e via dizionariando.

Consigliato ai ricercatori dei sentimenti, agli scopritori del significato di intimità, agli indagatori di beghe familiari.

martedì 7 novembre 2017

BORIS E LO STRANO CASO DEL MAIALE GIALLO

Volutamente, non parto mai con una nuova lettura sapendo di che si tratta. Voglio lasciarmi sorprendere, se mai dopo tanto esercizio si riuscisse ancora a farmela. L'innocenza da lettrice si infranse anni fa sugli scogli di Fëdor Dostoevskij.

SPORTELLO 12: Un incipit di quelli fulminanti che ti fanno venir voglia di leggere tutto&subito ma che anche ti dipingono una protagonista così puntigliosa da annotare tutte le sue potenziali azioni prioritariamente elencate sulla Moleskine da cult scrivano, a ribadire uno splendido concetto da scrittore: “il coraggio e la follia sono due lati della stessa medaglia”. Poi scopro quasi delusa che è solo un racconto di tanti. E che BORIS E LO STRANO CASO DEL MAIALE GIALLO è solo il titolo di un racconto di tanti.

TANGO, AMORE, CACIO E PEPE: “Si può amare con il silenzio, con una finta disattenzione, con una distanza che è più di un abbraccio?” Commossa io e non vi dico perché. Dovete leggerlo.

PERSO MA NON BATTUTO, ovvero un racconto fondato su alternanza e rimandi di due punti di vista. Sul dubbio: “Perché se poni la domanda giusta, eh... Dopo sei fregato. Mi concentro. Poi la sento arrivare. Sono un tutt'uno. Essenza e forma, sostanza e idea, contenuto e domanda. ** Perché avere paura?”

DI GIUNCHI E DI GINESTRE: Tra rimandi letterari e dotte citazioni, questo racconto riesce ad inglobare la disperata dispersione delle anime di vecchi con Alzheimer e di un giovane, Andrea, che si trova assieme a loro perché orfano. “... li porterei anche a Santina, Antonio, Giovanni, Francesca, Nina, Silvana, Piero, Annina, Giuseppe, Ferdinando, Rosaria, Anita per vedere l'effetto che fa la vita che va via.” Sembra di sentire una canzone di Enzo Jannacci, in versione malinconica. 

Poi si inaugura una nuova serie di novelle a sfondo carcerario, fatte di umanità strappate e amicizie inconsuete.

Qual è il massimo comune denominatore di ospedali, caserme, scuole e galere (e io aggiungerei banche e aeroporti, se negli ultimi anni non avessero deciso di renderli più “amichevoli”)? Se lo chiede la Iannetti in L'ABITUDINE ARRIVA SEMPRE PUNTUALE. Individua tanti elementi di disagio e li descrive rigorosamente, concludendo: “Qui niente è facile: gesti, sguardi, persone sono illuminati da un'altra prospettiva. Si chiama discrezionalità, o potere.” E ancora: “Ma il vero controllo, qui, la vera prova è quella sull'anima. E puoi avere tutte le monetine che vuoi da togliere dalle tasche. Non serve a nulla, quando entri in carcere.”

Del racconto LA PRIMA VOLTA CHE SONO MORTO nulla vi dirò: è troppo efficace per passare tra parole scritte da altri. Vi colpirà come un pugno allo stomaco, ma chiuderà con la speranza.

Le ultime novelle tornano al tono scanzonato degli inizi. Carine, ma non eclatanti, purtroppo lasciano al lettore la sensazione di aver letto qualcosa di scadente, quando in realtà sarebbe stata sufficiente una diversa successione dei racconti, lasciando per ultimo LA PRIMA VOLTA CHE SONO MORTO. E' un consiglio che mi sento di dare al curatore della collana.

Consigliato a inveterati lettori di racconti ben paradigmatici, a fantasisti delle carceri,a funamboli della parola.