Questa volta mi accingo a scrivere la
recensione di un breve romanzo di Giacomo D'Alia, un autore che
conosco di persona da anni, consapevole di rischiare la mancanza di
oggettività, cosa che evito
ogni volta. Come se non bastasse, questa
persona ha compiuto nei miei confronti una manchevolezza che non ho
ancora davvero perdonato. Cerco di predisporre l'animo in senso
favorevole, come contro tendenza. Ma è solo al risuonare di quel
passaggio che sento finalmente l'animosità abbandonarmi.
“Che me ne importava se mamma non
mi abbracciava mai e non mi dava i baci. Ero contenta così. Sarei
dovuta crescere, avrei dovuto fissare i miei primi capelli grigi
davanti allo specchio per capire quanto mi fossero mancati i suoi
baci.”
Mi risuona dentro, perché anche a mia
mamma per la più parte dei miei anni ho rimproverato la mancanza di
gesti affettuosi.
Con una scrittura seria ed onesta,
chiara e pulita, senza tanti fronzoli, l'originalità della
narrazione si fonda sull'alternanza di tre spazi temporali distinti,
caratterizzati tutti e tre da un'abbondante quanto inusuale nevicata,
dato il luogo: una Roma sempre immota. E dalla ricorrenza di un
segreto che non ci è dato di sapere, solo di intuire. Da qui il
titolo.
Il 9 febbraio 1965 è il giorno in cui il
D'Alia in un solo breve capitolo presenta la protagonista che
racconta in prima persona le sue esperienze di bimba in età di
elementari, con le sue piccole e innocenti manie, i cuoricini
disegnati sui vetri col ditino, l'odio da sempre per il suo vero
nome, Apollonia, quello che le piace e con cui invece la chiamano
tutti, Lucia; la sensazione dei baffi di papà sulle gote, pungenti e
intrisi di nicotina, la nostalgia di una mamma assente perché
impiegata ad alto livello in banca; l'affetto di e per la zia
accudente in casa quasi a farle da mamma vera, il villino dove vivono
tutti e quattro. Due donne, sorelle, e un uomo, in un sereno e ben
strutturato ménage à trois che mi insospettisce subito, ma resto in
attesa degli eventi, sospendendo il giudizio.
Il 9 febbraio 1956, anno in cui il
D'Alia usa invece la terza persona, ci parla di Adriana e Fausto, una
coppia sposata e giovane, che vive in un villino, alle prese con una
gran nevicata. Adriana esce di mattina presto per recarsi al lavoro
di responsabile in una banca della capitale, cosa inedita negli anni
'50 italiani. Direi persino abbastanza inedita oggi, avendo compiuto
il giro di secolo e sessantanni dopo. Infatti, viene presentata come
donna determinata perché ci va a piedi, nonostante neve e
gravidanza, nonostante le sagge raccomandazioni del marito Fausto.
Il 24 gennaio 2009 il D'Alia torna alla
narrazione in prima persona: capiamo che è Lucia, la bimbetta ormai
donna. Da cuoco esperto d'alta cucina letteraria, il D'Alia ci
soffrigge poco a poco, aggiungendo tanti piccoli ingredienti che
fanno la differenza: alcuni dettagli toponomastici, il villino
abitato da due sorelle anziane, quel cancello cigolante, il cartello
vendesi, l'attesa di un partner che sappiamo già non verrà.
Si direbbe quasi un giallo perché crea
la giusta suspence con lettere segrete nascoste tra libri, sussurrati
segreti, lotte armate non proprio segrete e padri magistrati che non
tanto segretamente difendono figlie scapestrate. Lucia è una di
queste che, altalenando tra bande armate e bulimia e anoressia, tenta
di uccidere l'alta borghesia dove nacque, annientando se stessa.
Il D'Alia è davvero un gran
Alchimista, in perfetto equilibrio tra sentimenti contrastanti
(l'odio/amore per i genitori - quali? - e verso la società, gli
affetti per partner mai puntuali e per figli mai nati), ma
soprattutto per aver interpretato con precisione millimetrica tre
figure femminili pur essendo uomo. Ma il mio plauso va per aver
saputo utilizzare con maestria regole paradigmatiche ben note,
stravolgendole. Mai infatti passare da una narrazione in prima
persona ad una in terza. Eppure il D'Alia ci riesce benissimo.
Solo un paio di piccolissimi e
irrilevanti appunti, che avrei potuto benissimo tralasciare, se non
dovessi mantenere alta la mia figura di implacabile recensora. Tre
errori sfuggiti all'Editor, uno non me lo ricordo, ma so che c'è; un
“se”, riferito a “se stesso”, ma senza stesso:
quindi avrebbe dovuto supportare l'accento acuto del sé; una parola
tronca senza sillaba finale. Ma quello che più mi “infastidisce”
(e lo metto appositamente virgolettato proprio perché è un niente),
è l'uso della parola dialettale “sgrullare” quando Pepe, il
cagnolino di Lucia, compie l'azione di scuotersi via l'acqua dal
pelo. Nulla da eccepire: si tratta di un normalissimo dialetto
italiano, a dire il vero sentito quassù al nord solo al termine di
una delicata operazione maschile quando scarica i propri liquidi
dall'apparato. Fin qui niente di male, ma la ricchezza di vocabolario
del D'Alia si smentisce quando ripete ad oltranza questo verbo, sebbe
l'italiano sia ricco di sinonimi: scuotere, scotolare, agitare,
sbatacchiare, scrollare, dimenare... e via dizionariando.
Consigliato ai ricercatori dei
sentimenti, agli scopritori del significato di intimità, agli
indagatori di beghe familiari.
Nessun commento:
Posta un commento