martedì 23 gennaio 2018

L'INSANA IMPROVVISAZIONE DI ELIA VETTOREL

Se potessi tirar fuori mia madre dalla tomba, le strapperei le ossa e la ucciderei di nuovo. Joe Fisher. (Fischer, non Fisher: Joe Fischer è un serial killer, tuttavia non ho rinvenuto evidenze che si tratti della medesima persona)

Mi interrogo sull' “autrice” (ammesso che sia davvero donna, ma nutro dei dubbi, per come riporterà puntualmente le perturbazioni sessuali del protagonista maschio). Anemone, fiore di pianta perenne molto rustica e resistente, debolmente velenoso, o anemone di mare, animale bentonico dai tentacoli urticanti? Entrambe le scelte giustificherebbero lo stile della sua scrittura. Ledger come libro mastro, su cui annotare puntigliosamente ogni entrata ed uscita, o come quell'attore noto a causa della morte prematura per un cocktail di farmaci? Per l'andamento della storia, adatti entrambi.

Disseminata qua e là da errori legati al parlato, (dapprincipio, celebrale, e non cerebrale, un le al posto di gli, un gli al posto di un la, un occhi abbinato a un paonazzi in modo quanto meno inusuale), la maniacale, piccola e grandiosa storia orrorifica nelle prime pagine stenta a partire. L'andamento narrativo è fin da subito caratterizzato da un “avanti/indietro” nel tempo, tra i modi dell'orfanotrofio, quelli dello psicologo che segue il protagonista in età adulta, i momenti dell'abbandono da parte della madre vera, tecnica adottata con maestria dall'autrice.

Si profilano dunque le vicende di un settenne, Elia Vettorel per l'appunto, dai capelli rossi e lentigginoso, con tendenze auto lesionistiche, in orfanotrofio alle prese tra le ingiustizie perpetrate a suo danno da un bulletto, Marco, e quelle suore, che lui chiama madri, in sostituzione della sua vera mamma. La scoperta del significato della parola puttana in bocca al bullo nei confronti di una sua presunta madre vera in arrivo (che l'avrebbe potuto adottare), fa esplodere e reagire Elia contro le angherie di questo Marco, meritando il castigo delle sorelle. Tranne una, madre Sara, che impietosita dalla solitudine di quel bambino, in castigo da digiuno per due giorni, gli porta qualcosa da mangiare.

Lo scoprirà intento nella lettura di un giornale proibito nel “carcere dei bambini”, come lo chiama Elia, costringendola a desistere dall'intento di aiutarlo. Il bimbo è condannato alla ricerca del suo picaresco amico immaginario, Huckleberry Finn, che ritraeva coi gessetti sulla stanza oscura delle punizioni come per consolarsi e non rimanere solo, evidentemente desiderando emularlo nelle sue avventure perché come lui figlio di ubriaconi e come lui schiacciato da insopportabili convenzioni sociali. Parlando della scoperta della musica jazz, che Elia interpreta come improvvisazione, sembrerebbe a giustificazione di un certo suo drammatico gesto di cui il lettore rimane all'oscuro, dice: “In ogni caso, nemmeno disegnata avevo mai visto una tromba. Il sole la rivestiva di straordinaria lucentezza, e la mia mente di bambino credette che quell'uomo di colore tenesse in mano dell'oro. Fu quando cominciò a suonare che capii che l'oro, in realtà, si diffondeva nell'aria.” È uno dei rari momenti di poesia del racconto, il jazz torna svariate volte a definire certi stati d'animo del ragazzo in determinati momenti della sua vita. Aurora Vettorel è la madre vera che gli donò il cognome e l'orfanotrofio per proteggerlo da suo papà, Raffaele e che poi torna a prenderlo dopo qualche anno.

La mamma durante il viaggio, osservando una cicatrice sulla gota di Elia e scoprendo che gli fu inferta da uno ceffone di sorella Sara, lo redarguisce sulla vita: “Impara bambino mio, che nella vita quanto meno sai, meno subirai, quanto meno farai, meno le cose ti si ritorceranno contro.”

Improvvisamente un altro schiaffo, senza divisione di capitolo né paragrafi: la scena macabra del marito di Aurora, con lei incinta. L'uomo si accanisce su un bimbo, fino ad arrivare ad ammazzarlo. Scopriamo dunque il motivo per cui Elia venne abbandonato in quel carcere per bambini.

Più avanti, a poco più di un terzo della narrazione, quello che potremmo definire un colpo di scena, è più in realtà una sorta di nota a margine che il mio cervello da lettrice accanita registra e mette in un angolo delle sinapsi: la madre di Elia talvolta estrae da un cassetto appositamente chiuso a chiave un oggetto misterioso e riporlo nella borsetta, per poi al suo ritorno nasconderlo nuovamente nel cassetto.

Quindi un'altra scena shock: la mamma di Elia gli mostra una serie di piccole cicatrici sul proprio ventre, provocandogli un'erezione, ma anche smorzandogliela all'istante: “Sei stato tu.”

La scoperta da parte di Aurora dei loschi traffici del marito ci prende alla gola, dapprima convinta che si trattasse “soltanto” di droga con varie organizzazioni mafiose italiane, poi lo squarcio nella realtà: bambini rapiti con la complicità dell'organizzazione criminale. Lei: “Ti rendi conto di aver mentito su un fatto così importante? Ti rendi conto delle cose che tu fai?”
Lui: “Oh suvvia, sono bambini di capofamiglia mafiosi! Se lo meritano!”. Poi il cassetto, l'oggetto misterioso che altro non era se non un'arma (sapremo solo più avanti a cosa fosse servita e a cosa servirà ancora), i ritagli di giornale che parlavano di sua madre assassina del padre e la mazza della madre che quasi lo ammazza. Quasi ammazza un Elia troppo curioso. Un Elia che diventa assassino a sua volta della sua pseudo fidanzata. Brava l'autrice a raccontare l'abisso di una mente umana quando sconfina nella pazzia.
Otto colpi di pistola. Poi altri due. Chissà se essite davvero un'arma con dieci colpi, nella mia ingoranza anti violenta ne ho googlate solo da otto.

Se solo avesse avuto qualcuno che lo avesse potuto abbracciare, in quegli attimi, Finn se ne sarebbe andato con il sorriso e tutto sarebbe tornato alla normalità.” Il finale a sorpresa che vorrei per ogni romanzo: brava Anemone, chiunque tu sia.

Consigliato ad adolescenti in avanzato stato di decomposizione, agli eterni Peter Pan dell'horror, a cercatori di emozioni non scontate.

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