martedì 27 agosto 2019

LA CIOCIARA di Alberto Moravia

Da anni mi ero prefissata l’obiettivo di leggere questa opera di Alberto Moravia, ritenuta grande dalla cultura mainstream, tuttavia lo snobismo nei confronti suoi me lo impediva, come mi accadde tante volte (vedi L’ELEGANZA DEL RICCIO), facendomi soggiacere all’ignoranza. Anche in questo caso, mi sono accorta di aver perso per troppo tempo un’immensa lezione di letteratura e di vita. Troppo, si fa per dire: se si ha l’umiltà di accogliere una lezione, non è mai troppo tardi. Almeno spero.

Così, per studiarmi passaggi che ritengo pregnanti per l’immenso contenuto di umanesimo, me li riscrivo qui:
“Ma questo tesoro sotto terra non c’era, come sapevo; l’avevo trovato dentro me stessa, con la stessa sorpresa che se l’avessi scavato con le mie mani; ed era stata quella calma profonda, quella mancanza completa di paura e ansietà, quella fiducia in me e nelle cose che, passeggiando tutta sola, mi erano cresciute nell’animo a misura che i giorni passavano. In tanti anni furono quelli forse i miei giorni più felici e, strano a dirsi, furono proprio quelli in cui mi trovai più povera, più sprovvista di tutto, con pane e formaggio per cibo e l’erba del prato come letto e neanche una capanna per rifugiarmi, quasi più simile ad un animale selvatico che a una persona.”

“Ma adesso non me la sentivo di dir nulla. In realtà le nostre disgrazie ci rendevano indifferenti alle disgrazie degli altri. E in seguito ho pensato che questo è certamente uno dei peggiori effetti della guerra: di rendere insensibili, di indurire il cuore, di ammazzare la pietà.”

“Lo ricordo l’elenco e lo riporto qui per dare un’idea di cosa fosse la vita della gente nell’autunno del 1943. La nostra vita, di me e di Rosetta, era dunque affidata ad un sacco di cinquanta chili di farina di fiore, per fare il pane e la pasta, ad un altro sacco più piccolo di farina gialla di granoturco per fare la polenta, ad un sacchetto di una ventina di chili di fagioli della peggiore qualità, quelli con l’occhio, ad alcuni chili di ceci, di cicerchi e di lenticchie, a cinquanta chili di arance, ad un vaso di strutto del peso di due chili e a un paio di chili di salsicce. Tommasino inoltre aveva portato su anche un sacchetto di frutta secca come dir fichi, noci e mandorle, e una buona quantità di carrube che di solito si danno ai cavalli, ma ormai, come ho accennato, erano troppo buone anche per noi.”

Il finale, mesto e modesto, ha una sua maestosità che è d’uopo riportare qui:
“Grazie al dolore, eravamo alla fine, uscite dalla guerra che ci chiudeva nella sua tomba di indifferenza e di malvagità ed avevamo ripreso a camminare nella nostra vita la quale era forse povera cosa piena di oscurità e di errore, ma purtroppo la sola che dovessimo vivere, come senza dubbio Michele ci avrebbe detto e fosse stato con noi.”

Consigliato a chi volesse conoscere la vita di dignitosi stenti durante il 1943, di come la figura della Donna venisse tenuta in considerazione in quell’Italietta di popolani, ora come allora, ad autori come me che volessero apprendere uno stile dimesso ma mai ignorante.


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