Di Roberto Anzaldi seguivo da un
annetto il blog, annotazioni di vita quotidiana che non
mi lasciavano gran che, lo ammetto. Per me, sceneggiatrice avvezza
all'epurazione da aggettivi e avverbi, il suo stile di scrittura mi
appariva un po' troppo lezioso e appesantito per approfondirne gli
argomenti affrontati. Non ho mai commentato suoi post su Google+,
mentre l'Anzaldi spesso condivideva miei estratti dal blog contro le violenze di genere.
Il nostro rapporto online si limitava a
garbati ringraziamenti. Ultimamente, però, l'Anzaldi si era accorto
delle mie attività di recensione libresca. Un paio di settimane or
sono, condividendone una, mi fece con tatto notare che non avevo
ancora recensito libri suoi. Mi scusai ammettendo la mia povertà,
che mi induceva a preferire testi reperiti in biblioteca o donati
dagli stessi autori, mentre i suoi erano (giustamente) in vendita. Io
sono la prima a sostenere che il lavoro vada remunerato.
Signorilmente, l'Anzaldi si scusò dell'indelicatezza, spedendomene
due di sua firma in piego di libri al mio recapito per ottenerne la
recensione.
Del primo, dal titolo: PREGO, NON
CESTINARE, C'E' DENTRO LA MIA VITA non fui in grado di risalire alla
data di pubblicazione, ma l'aspetto grafico della copertina mi lasciava presupporre che fosse antecedente al secondo. In seguito, mi accorsi che
non avevo sbagliato: il secondo riportava anche la data di
pubblicazione del primo, effettivamente antecedente. Liquido subito
il primo come un coacervo di pensieri disordinati e scollegati, se
non dall'impertinenza del titolo stesso. Lo stile di scrittura,
lezioso per l'appunto, mai spontaneo, la spasmodica ricerca di un
lessico fuori dall'ordinario, le reiterazioni pleonastiche, le
numericamente infinite parafrasi, le ingiustificate elucubrazioni
ripiegate su se stesse, mi stavano subito seccando. Il titolo mi
aveva creato l'aspettativa di un'autobiografia, invece. Penso non sia
definibile nemmeno come saggio, dico “penso” perché l'ho
interrotto intorno alla trentesima pagina, ben oltre il limite
previsto dall'Umberto Eco per selezionare i propri lettori. Finirà
quanto prima nella bancarella di bookcrossing di un libraio della
cittadina dove vivo, nella speranza che qualcun altro possa
apprezzarlo in vece mia, perché so quanto costi il lavoro della
scrittura.
Attaccai il secondo, il cui titolo
invece è: C'E' UN POSTO DA QUALCHE PARTE... (scelta particolare,
questa dei titoli narrati, come fossero opere cinematografiche della
Lina Wertmuller). Per inciso, forse sono presuntuosa nel definirmi tollerante, ma se c'è qualcosa che non ammetto sono i puntini
di sospensione nei titoli. Quindi mi armai di buona volontà per
superare l'avversione e iniziai la lettura.
Il prologo non prometteva nulla di più
rispetto al primo libro, ma qualcosa mi stava dicendo di continuare,
non fosse altro perché questa volta si avvertiva una storia.
Proseguendo nella lettura, mi accorsi che lo sviluppo dell'azione
impediva all'Autore di soffermarsi troppo sulle leziosità
lessicali, le metafore e le parafrasi, le reiterazioni pleonastiche,
concentrandosi invece sul proseguimento della vera sostanza della
narrazione. Sebbene il plot fosse un tentativo di lacrimevolezza,
senza però mai sconfinare nello smaccato, non mi pentii di finirlo,
anzi. Durante tutta la storia percepivo nettamente la partecipazione
dell'autore alla malattia e morte della protagonista femminile, quasi
fosse un'autobiografia. La rottura di aneurisma cerebrale che le
capita, capitò anche a me nel 2012, con la differenza che lei ne
muore, mentre io sono tornata dal Regno dei Morti. Avendo rilevato
qualche piccola imprecisione medico diagnostica, tiro le orecchie
all'Autore per non essersi debitamente informato. Resta di
apprezzabile che l'Anzaldi, o meglio, il suo personaggio, grazie alla
donna, riscopra l'amore per se stesso e la vita.
Consigliato a chi ama le storie che non
devono per forza avere l'happy end, agli amanti di film come LOVE
STORY, a chi crede nel potere di redenzione dell'amore.
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